Viaggi e visioni di Setola di maiale
Desidero vedere, sento, registrato ad AngelicA 2016, esce per l'etichetta del batterista Stefano Giust
L’abitudine a essere consolati, confermati nelle nostre risibili certezze. Il diabolico vizio del respiro, come diceva Cioran. La musica come carta da parati, soprammobile, come qualcosa da ascoltare in sottofondo, mentre si fa altro. Il sapore stantio di tanto jazz che non è altro che calligrafia, cartolina.
Contro questa attitudine si muove da 25 anni, ispida e cocciuta, Setola di maiale, l’etichetta di improvvisazione del batterista Stefano Giust. Desidero vedere, sento, registrato al festival Angelica nell’ottobre del 2016, è una dichiarazione di intenti, una presa di posizione. I flauti di Massimo De Mattia a indagare in una selva buia, psicologica, con le ombre di Henry Threadgill ed Eric Dolphy ad annuire sullo sfondo. Il batterismo ellittico, elusivo di Stefano Giust a tessere i fili dell’ordito mentre il contrabbasso di Giovanni Maier (consiglio a tutti di recuperare l’intervista sul manifesto uscita venerdì 1 giugno di Flavio Massarutto, che offre una panoramica davvero interessante su questo grande musicista e sui sui progetti al crocevia tra Storia e memoria) rovista tra gli spigoli con sfrontatezza e grande fluidità. Per il pianoforte di Giorgio Pacorig, diventa complicato davvero trovare aggettivi: imprendibile, sempre ispirato, magistrale, una sorpresa perenne e un cocciuto ma mai risaputo indagare il confine tra il noto e l’ignoto; ogni ascolto, ogni volta, è una scoperta.
E allora desidero vedere, e come davanti a un quadro di Rothko o sferzato da un vento chiamato Bob Rauschenberg (Octavio Paz, il grande poeta messicano avrebbe sicuramente apprezzato questa musica così aperta, così multiforme, generativa) chiudo gli occhi, e per vedere veramente li apro verso dentro: un mondo ripido, esteso, non euclideo ("Esteso, abituato"), pieno di bellissime trappole, meccanismi obliqui e perfetti, tutto risplende nelle geometriche bave di ragno del caso, il dado è tratto, si varca il Rubicone, la comfort zone, musica come agguato, il quartetto è in puro stato di grazia, il cd ti fruga in testa come uno psicanalista portatile e muto: niente dispendiose sedute, riottose aperture, fidarsi e abbandonarsi, basta infilare il dischetto magico nello stereo, alzare il volume, e lasciare scorrere le immagini. “Mi pare di averti già detto che io non penso mai. Sto fermo ad un angolo vedendo passare quello che penso, ma non penso quello che vedo”.
Visioni, appunto: "Lì, per lì, le stesse", o forse miraggi, poco importa; sento più di quello che vedo, vedo più di quello che posso dire c’era scritto nel libretto di Herd of Instinct degli O’Rang (la sezione ritmica dei Talk Talk, con una ciurma di ospiti tra cui la divina Beth Gibbons una vita fa) e allora "Addio, (dire il vero)", salpare verso l’indicibile, nell’oceano del suono aperto, ritrovare la meraviglia, lo stupore dell’inizio, lo stesso che in quanto umano e civilizzato, l’ho spesso pensato, "Non posso conservare".
E invece, ancora una volta, il breviario della nostra consuetudine di homo audiens, "Bugiardo, diceva" parole senza sentire. Un disco importante, illuminato da una grazia malmostosa e scura, lirica e scontrosa al tempo stesso, come se su tutta l’improvvisazione aleggiasse un sentore di minaccia, di vento sfavorevole (che sia il vento dell’attualità?): una navigazione fuori rotta che per cinquanta minuti abbondanti ci consegna quattro musicisti capaci di scoprire ancora una volta nuovi territori.