Un Tippett orchestrale
Esce postumo lo splendido The Monk Watches The Eagle di Keith Tippett
Tra i dolori che il 2020 ha dispensato con non richiesta generosità, la scomparsa di Keith Tippett a giugno riveste un carattere di malinconica rilevanza. Non solo per la – relativa – ancor giovane età (non aveva ancora 73 anni), ma soprattutto per quello che il musicista inglese ha rappresentato in termini di generosità umana e qualità artistica.
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Artista integerrimo, che ha sempre considerato la pratica del comporre e dell’improvvisare come una necessità che andava ben oltre le tendenze, Tippett ha attraversato un cinquantennio di vita musicale europea con una tensione qualitativa sempre altissima, passando dal piano solo al duo con la moglie Julie, dal quartetto Mujician alle titaniche imprese di Ark e Centipede, dal Sudafrica dei Blue Notes alla breve, ma celebratissima, collaborazione con i King Crimson.
Non sorprenderà dunque che la prima uscita “postuma” sia un lavoro in cui Tippett non suona il pianoforte, ma compare come compositore e direttore.
Si tratta di una cantata per coro, otto sassofoni (4 di impostazione classica, 4 con “licenza di improvvisare”) e voce solista, commissionata dal Norwich and Norfolk Festival nel 2004 e all’epoca trasmessa da BBC Radio 3.
Dedicato al padre e dal carattere evidentemente meditativo e spirituale (il libretto evoca i pensieri di un uomo sul letto di morte) è un lavoro di commovente intensità, nel quale si incontra la tradizione corale inglese, un approccio organistico ai sassofoni – che spesso respirano come un mantice vivo – e elementi di inquietudine che non sarebbe fuori luogo ricondurre al blues.
Ogni tanto compaiono elementi stranianti e meravigliosi, come la mbira suonata da Julie Tippetts all’inizio della quarta, formidabile, sezione della cantata (sezioni di praticità discografica, dal momento che il lavoro andrebbe fruito senza interruzioni), ma è spesso l’irrompere, come una marea, di una forte massa accordale (anche qui le esperienze giovanili come organista a Bristol tornano con persistenza quasi warburghiana) che spinge quasi fisicamente l’ascoltatore verso spazi di profondità ricettiva che poi accolgono i momenti più rasserenati e lirici.
La voce di Julie o il sassofono lacerano a tratti questa stasi con una irruenza ancestrale, necessaria, che riconduce il sacro a una dimensione affettiva intima che consente a Tippett di maneggiare con maestria differenti codici lessicali (l’incipit arrembante della parte 5, momento dalla solennità epica, per esempio), a volte di nitore quasi madrigalistico, altre volte compressi dentro vortici atonali.
Un lavoro di cui Tippett andava fiero, una composizione, anche fatta la tara sull’emozionalità della scomparsa del musicista, che non può che commuovere, con la sua atemporalità quasi salvifica in un anno di frenetiche videochiamate. Ma soprattutto un’ulteriore, splendida, testimonianza della statura di Keith Tippett, pianista, compositore, uomo che ha lasciato un vuoto davvero profondo nell’ecosistema musicale di questo pianeta.