Shabaka and the Ancestors, l'Africa dopo l'apocalisse
We Are Sent Here By History è il nuovo, esaltante disco di Shabaka Hutchings con gli Ancestors
Shabaka Hutchings è sassofonista tenore a tratti di matrice ayleriana, quando non postcoltraneiana, clarinettista, band leader e compositore britannico di origini barbadiane, da tempo animatore della scena del south east londinese, già fondatore dei Sons of Kemet. Classe 1985, tra i più validi ri-articolatori oggi della dinamica tradizione jazzistica nella sua veste più spirituale, sperimentale, propulsiva e tribale, sembra che Hutchings abbia rilasciato una dichiarazione pressappoco di questo tipo, in merito al nuovo progetto: «Dobbiamo iniziare ad articolare le nostre utopie, specificando ciò che deve essere bruciato da quel che invece deve essere salvato».
La cometa di Shabaka Hutchings
Già, perché secondo Hutchings – e ovviamente non solo – l’umanità è ormai in procinto d’essere spazzata via da un’imminente catastrofe ambientale (“Loro che devono morire” è la traduzione letterale del programmatico titolo dell’iniziale "They Who Must Die"), con ogni probabilità non più evitabile, anche se intervenissero quei drastici repentini cambiamenti, da molti (o purtroppo ancora pochi) sempre più spesso auspicati, nel nostro stesso modo di vivere e concepire l’esistenza.
«Dobbiamo iniziare ad articolare le nostre utopie, specificando ciò che deve essere bruciato da quel che invece deve essere salvato».
Una catastrofe ormai tutta da accettare, se non accogliere, più ancora che da scongiurare, perché quando la storia chiama (come in questi giorni?), bisogna saperla guardare direttamente negli occhi. Saranno eventualmente i superstiti a portare avanti quel che di buono saremo riusciti a salvare di noi stessi.
In questo senso, la musica partecipata, progressiva, infervorata, socialmente funzionale di Shabaka Hutchings, che affonda le radici nella saggezza della tradizione (jazzistica, africana, caraibica) per poi ricombinarla a piacimento, non prima ovviamente di averla adeguatamente riscoperta, vuole essere una sorta di esemplare, propositivo, ribollente e invocante monito (intriso di consapevolezza, e però non di vuoto catastrofismo), sulla scorta di una chiamata arrivata direttamente dalla storia. Ecco il motivo dell’altisonante titolo di quest’ultimo lavoro, We Are Sent Here By History.
Ad accompagnare Hutchings in questo suo terzo, profetico album per la prestigiosa Impulse! gli Ancestors, uno straordinario gruppo di musicisti sudafricani, tutti residenti a Johannesburg, o meglio a Soweto (la celebre township dalla quale è partita la valorosa lotta contro l’apartheid): Mthunzi Mvubu al sax contralto, lo spiritato Siyabonga Mthembu al canto (nelle lingue bantù zulu e xhosa) e al talking (l’enunciazione in inglese delle significative liriche del giovane poeta Lindokuhle Nkosi), l’inesauribile Ariel Zamonsky al contrabbasso (davvero eccezionale il suo contributo), Gontse Makhene a “vocianti” rituali percussioni, e Tumi Mogorosi alla batteria. We Are Sent Here By History è il secondo lavoro realizzato con questa formazione, dopo l'acclamato Wisdom of Elders.
All'energico collettivo si aggiungono una serie di ospiti, tra i quali, oltre ai pianisti Nduduzo Makhathini e Thandi Ntuli, il talentuoso trombettista Mandla Mlangeni, sorta di moderno Mongezi Feza, già leader dell’Amandla Freedom Ensemble, il quale, diverso tempo fa ormai, ha avuto il merito di introdurre Hutchings al mondo del jazz, ma anche dell’art rock della fervida scena musicale di Johannesburg (Mthembu era vocalist della locale rock band The Brother Moves On).
I modelli di Hutchings qui sembrano spesso e volentieri risalire all’euristica e profonda spiritualità coltraneiana (espressamente richiamata in "Behold, The Deceiver") o sandersiana, quando non a certo “jungle style” alla Mingus (ma ovviamente non solo); e poi allo storico luminoso jazz sudafricano, rappresentato dalla musica ipnotica e scintillante dei vari Louis Moholo, Johnny Dyani, Hugh Masekela, e però con un minor ricorso alla tipica ballabile circolarità dei loro caratteristici andamenti (ma insomma: si ascolti la ricorrente ritmicità di "The Coming of the Strange Ones" o ‘Till the Freedom Come Home"), in favore invece di una maggior filamentosa (più contemporanea?) linearità dello sviluppo musicale, mai disgiunto al contempo da una continua, avvincente, sincronica esplorazione poliritmica, e anche polifonica. Quest'ultima più “sgangherata”, potremmo dire ornetteiana, o altrove più sorprendentemente educata, anche se a tratti quasi richiama le polifonie boscimane, come nella spettacolare conclusione di "Run, The Darkness Will Pass" o nel flautato progredire di "We Will Work (On Redefining Manhood)".
Note, suoni, colori, vivacemente orchestrati in vista di un eventuale postapocalittico nuovo inizio. Magari proprio a ripartire dall’Africa, quella australe se non altro.