Moor Mother, il prezzo della schiavitù
The Great Bailout, nuovo lavoro della statunitense Camae Ayewa, illumina un risvolto del colonialismo britannico
Dopo aver guidato gli Irreversible Entanglements all’esordio su Impulse!, Camae Ayewa – alias Moor Mother – torna a esprimersi da solista in The Great Bailout: album a soggetto derivato dall’omonimo allestimento in tre atti messo in scena nell’ottobre 2019 con un quartetto di strumentisti della London Contemporary Orchestra in vari contesti, dal Barbican al festival “Unsound” di Cracovia, ma anche al Macao di Milano.
«Un poema in versi liberi che funge da mappa non lineare del colonialismo, della schiavitù e del commercio in Gran Bretagna e nel Commonwealth», veniva specificato allora in sede di prefazione.
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L’“indennizzo” nominato nel titolo riguarda il denaro versato dal governo britannico a 46mila “proprietari” di schiavi – in larghissima maggioranza residenti nei possedimenti d’oltremare – all’entrata in vigore dello Slavery Abolition Act sancito nel 1833: la strabiliante cifra di 20 milioni di sterline (equivalenti a 17 miliardi attuali), per erogare la quale fu contratto un debito di proporzioni tali da generare strascichi fino al 2015.
Di quello parla – su inquietante fondale di rumorismi glitch – “Death by Longitude”, episodio introdotto da queste parole: “Che dire di Barbados e Giamaica e Trinidad? L’Europa è Dio e tutto il resto è Satana!”.
La mole di quattrini in gioco viene evocata pure nell’eloquente “All the Money”, che provvede d’altra parte a istituire un legame con la contemporaneità: dialogando insieme al soprano Alya Al-Sultani in un ambiente a tinte fosche (qui la produzione è firmata dall’eminente pianista Vijay Iyer), Moor Mother menziona lo scandalo della cosiddetta Windrush Generation e punteggia la narrazione con una sequenza di interrogativi retorici (“Chi ha contribuito a costruire il paese? Chi è stato deportato? Chi è senza cittadinanza? Di chi è stata cancellata la memoria? A chi non è permesso di lavorare? Chi bussa alla porta dell’immigrazione?”), affiancandole la polemica sul saccheggio coloniale di cui beneficiarono i musei londinesi (“Victoria and Albert Museum, 4.6 milioni di reperti che abbracciano un periodo di cinquemila anni”).
Il carattere sonoro dell’opera alterna a spigolose costruzioni elettroniche (in “Liverpool Wins”, che usa una metafora da campanilismo calcistico per descrivere il ruolo strategico della città portuale nel traffico delle navi stipate di schiavi) soluzioni di scuola jazzistica (il fraseggio di tromba che accompagna la protagonista in una beffarda revisione dell’inno nazionale “God Save the Queen”: “La Regina è stata salvata? Sono state salvate le sue piantagioni?”).
La platea dei collaboratori è vasta e qualificata: nell’esteso mantra “South Sea” agisce ad esempio il collettivo Sistazz Of The Nitty Gritty coordinato da Angel Bat Dawid e in “Compensated Emancipation” si apprezza il controcanto gospel della vocalist queer di Cleveland Kyle Kidd, quando nel suggestivo sketch “My Souls Been Anchored” fa capolino lo svedese Olof Melander e al citato “Death by Longitude” contribuisce la sperimentatrice norvegese Maja S. K. Ratkje.
Il compito di conferire tono e pathos all’iniziale “Guilty” spetta invece a Lonnie Holley, che in voce dispensa blues da par suo in un’orchestrazione cameristica imperniata sul ricamo all’arpa di Mary Lattimore. “Abbiate pietà di noi”, invoca lui, prima che Moor Mother declami un atto di accusa: “Avete capitalizzato il trauma?”.
All’intensità politica, The Great Bailout associa dunque un contenuto musicale in sé pregiato, ancorché complesso.
Sarà interessante verificarne in primavera l’ulteriore evoluzione dal vivo, in Italia al Bergamo Jazz Festival e al TPO di Bologna, rispettivamente il 22 e il 24 marzo.