Lo strano caso di Alabaster DePlume
Nel nuovo, bizzarro album Gold l’inglese Gus Fairbairn / Alabaster DePlume trasfigura i codici del jazz
Dal fecondo vivaio dell’International Anthem è appena affiorato Gold, secondo lavoro affidato all’etichetta discografica di Chicago dal britannico Gus Fairbairn, mascherato dal bislacco pseudonimo Alabaster DePlume.
Sassofonista, compositore e sedicente “oratore”, poiché declama versi scritti da lui stesso abbozzando scenette di vita contemporanea. Tipo: “Sbalordito quando guardo la tv cinese, scatti di smartphone di qualcuno colpito dagli sbirri, perché deve succedere?”, sulla cadenza vagamente reggae di “The World Is Mine”. Oppure: “Ricordo il mio numero di pin, ricordo l’indirizzo email della mia ex, ma dimentico che sono prezioso”, preludio a un epico sbocco di jazz orchestrale.
Intendiamoci: del jazz Alabaster DePlume ha un’idea tutta sua. Nel brano conclusivo, il più esteso della raccolta, uno strumentale intitolato “Now (Pink Triangle, Blue Valley)”, ad esempio, crea un ambiente sonoro di fattura impressionista dosando le parti strumentali, in particolare un sax insinuante e il pianoforte, suonato alla maniera di Robert Wyatt epoca Rock Bottom.
L’impasto musicale è avvolgente e stratificato, frutto di un metodo curioso: «Ho registrato ciascuna traccia più volte con circa cinque formazioni differenti e siccome il tempo era sempre invariato ho potuto mescolare e sovrapporre gli elementi che preferivo di ognuna». Una ventina in totale gli strumentisti coinvolti, più noto di tutti il batterista Tom Skinner (nei Sons Of Kemet di Shabaka Hutchings e ultimamente insieme a Thom Yorke e Jonny Greenwood nel trio The Smile), in genere orbitanti intorno al Total Refreshment Centre di Londra, snodo strategico del Nu Jazz d’oltremanica, nonché sede delle sessions propedeutiche all’album in questione.
Nativo di Manchester, Fairbairn si era trasferito nella capitale sette anni fa «diventando una persona nuova», tanto da adottare il predetto nome d’arte, e rifinendo il proprio singolare profilo espressivo da cantautore con sassofono. Definizione calzante se qui si ascolta “I’m Gonna Say Seven”: incantevole ballata folk dalla consistenza fragile, cui segue tuttavia una buffa marcetta punteggiata da ghirigori elettronici ponendo nell’intestazione un impudente quesito retorico, “Do You Know a Human Being When You See One?”.
In questa Babele frastornante c’è comunque un filo conduttore: “Ho tutto il necessario per la gloria dell’essere, ti riconosco e festeggio, sono sfacciato come un bambino, come lo stupido sole, e vado avanti nel coraggio del mio amore”, ripete il protagonista in tre diversi episodi, ossia “Fucking Let Them”, “Broken Like” (dove aggiunge: “Finalmente rovinato, rovinato bene, rovinato una volta per tutte”) e “Again”, con supplemento afro fornito in voce dal guineano Falle Nioke.
Altre sfumature dilatano ulteriormente la scala cromatica di Gold: dall’accenno di bossa nova in “Who Is a Fool” alle ancestrali polifonie femminili che assecondano la narrazione in “I’m Good at Not Crying” e le geometrie tracciate dal tenore in “Ms. Calamari”.
E così, in un arco di quasi settanta minuti, il nostro improbabile deus ex machina ha creato un mondo libero, abitato da musiche senza un centro di gravità: affini a quanto immaginato in passato da consimili visionari quali Alice Coltrane e Arthur Russell.