L’ascensione dei Kokoroko
Nell’album di debutto Could We Be More l’ottetto londinese distilla afrobeat in emulsione jazz
Premessa: non sarò imparziale, ammesso e non concesso si possa esserlo facendo un mestiere del genere, opinabile per definizione. Il fatto è che sono innamorato, pertanto in deficit di equilibrio e lucidità.
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A farmi perdere la testa – tipo non poterne fare senza e provare piacere ogni qual volta entra nel mio raggio percettivo – è stata una canzone che descrive, dice il titolo, l’Era dell’Ascensione…
Cos’ha di speciale? Suona come la musica perfetta, almeno per me. Malinconica, dolce e serena: sembra l’inno di un mondo migliore, con quella linea melodica – al tempo stesso ammaliante e solenne – disegnata dalle ance. Dei suoi artefici, del resto, ultimamente si fa un gran parlare anche da noi, per via di alcuni concerti tenuti qui e là nella penisola.
Avvisaglie ce n’erano state già alla fine del decennio scorso: il brano con cui i Kokoroko concludevano la compilation We Out Here (dove figuravano altri protagonisti del “nu jazz” londinese, anch’essi allevati nel laboratorio Tomorrow’s Warriors: Moses Boyd, Theon Cross, Nubya Garcia, Shabaka Hutchings…), allestita a inizio 2018 dall’etichetta di Gilles Peterson, ora editrice di Could We Be More, non passò inosservato e fece il botto l’anno seguente, quando fu postato su YouTube per trainare l’Ep d’esordio della formazione guidata dalla trombettista Sheila Maurice-Grey (a oggi, “Abusey Junction” ha superato i 50 milioni di visualizzazioni).
Insieme dal 2014, i Kokoroko hanno perfezionato da allora un’alchimia sonora a base di sonorità dell’Africa Occidentale (segnatamente l’highlife targato Ghana e l’afrobeat della Nigeria, luogo di provenienza del nome, inoltre: l’equivalente di “Sii forte” nella lingua dell’etnia Urhobo) in emulsione – appunto – jazz (volendo cercare un’ascendenza su quel fronte, indicherei l’esperienza della diaspora sudafricana a Londra simboleggiata più di mezzo secolo fa dai Blue Notes di Chris McGregor, espansi poi nei Brotherhood Of Breath).
Applicazione esemplare della ricetta è “Something’s Going On”, deputato sei mesi fa al ruolo di battistrada per Could We Be More sfoggiando groove insinuante e dovizia di fiati (tutti di marca femminile: accanto alla capobanda, Cassie Kinoshi al sax alto e Richie Seivwright al trombone).
Ma c’è dell’altro: un sintetizzatore che sa di “funkadelia” nel sottofondo di “Tojo”, caloroso abbraccio di benvenuto nel disco, l’intonazione soul delle voci in “Those Good Times” e quella viceversa in stile “lovers” giamaicano nell’incantevole “We Give Thanks”, preludio a una sequenza di fraseggi mozzafiato degli ottoni.
L’armonica combinazione dei fattori in gioco mostra il sorprendente grado di maturità raggiunto dall’ottetto afrobritannico e rende questo album oggetto musicale di strepitosa bellezza.