La musica "liquida" di Tamborrino
Seacup è il primo disco "solista" per il batterista Stefano Tamborrino
Comincia dalla “Coda”, per dirla con una battuta, questo primo disco a firma di Stefano Tamborrino, creativo batterista percussionista polistrumentista compositore fiorentino, classe 1980, dall’aperto e intelligente percorso da autodidatta, qui per la prima volta alle prese con la pubblicazione di un disco interamente a proprio nome, nonostante le molte collaborazioni e i progetti nei quali da anni è impegnato come leader o co-leader (ricordiamo su tutti, quello con gli sperimentali, imprevedibili, avanguardistici, “sempreverdi”, Hobby Horse).
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L’album segna l’esordio per la prestigiosa etichetta di Paolo Fresu, e documenta su disco un progetto difficilmente classificabile (davvero non inquadrabile in nessuna conosciuta scuola), impegnativo, in mancanza della disponibilità a lasciarsi trasportare dalle sue ondivaghe magnetiche filamentose insistite cadenze, che è stato presentato per la prima volta un paio d’anni fa al Time in Jazz di Berchidda.
Seacup è la rappresentazione di un quieto e al contempo sempre in movimento, non paludato, stagnante, riflessivo mare interiore.
Apparentemente circoscritto nell’area piccola di un apposito metaforico contenitore, questo placido mare interno conserva in realtà, per lo meno in potenza, tutta la misteriosa, ingestibile, inevitabile, imprevedibilità dovuta alla sua indeterminata natura di liquido. L’onda che vi si forma, adatta a ospitare mastodontici cetacei, può sì essere l’accogliente culla del nostro sguardo, ma anche conservare in sé la capacità di spazzare via un intero paesaggio.
Per raccontarsi, tradurre in suoni la propria particolare, intima ed oceanica visione musicale, Tamborrino ha scelto un organico inusuale, un vero e proprio sestetto “irregolare”, per il quale, fin dall’inizio, sono state appositamente composte tutte le originali musiche di questo singolare eclettico progetto sinfonico.
Una formazione qui composta da Ilaria Lanzoni al violino, Katia Moling alla viola, Andrea Beninati al violoncello, e poi Dan Kinzelman al sassofono tenore (o elefantiaco “corno da caccia”, facendo riferimento agli oltre quattrodici minuti della “sua” più movimentata “Olifante”) e Gabriele Evangelista al contrabbasso, determinanti nell’ampliare il ventaglio di possibilità sonore, espressive e compositive.
Il sestetto conduce l’ascoltatore in territori decisamente amniotici e misteriosi, attraverso echi che spaziano dalla vivace estemporaneità del jazz alla preordinata seriosità concentrata della musica contemporanea, dal pop elettronico al folk, da una sorta di postmoderna psichedelia metafisica a un sostenuto tenace minimalismo (non privo comunque di un suo lento ostinato sviluppo), a partire ovviamente, vista la sostanziale presenza di un novecentesco e quasi cinematico, quartetto d’archi, da un ipnotico, potremmo dire ieratico, fors’anche dolente, raccoglimento cameristico.
L’album mescola di continuo le carte in gioco, perché disparati sono gli elementi che incessantemente vi confluiscono, e però senza particolari contrasti, strappi o significativi cambi di registro (salvo forse nella già citata “Olifante”), ma anzi mai perdendo, in nessun momento del suo composito articolarsi, la propria incredibile coerenza sonora, ricercata dall’inizio alla fine in modo scrupoloso, quasi parossistico, e sempre nell’ambito di un impianto architettonico, che davvero sfugge al definitorio rigore di precetti o accademie di ogni tipo.
Potremmo definirla, come altri hanno fatto prima di noi, una totale mancanza di ambizione emulatoria, quella qui coraggiosamente manifestata o esplorata da Tamborrino, oppure forse l’esempio dell’affermazione di una totale ambizione al raggiungimento della più originale fra le autenticità, che è senz’altro uno dei pregi di questo atipico lavoro, ma fors’anche un po’ il suo difetto. Del tutto inconsueto, comunque (e questo è già più che bastevole).