Junk Magic, il giardino magnetico di Taborn

Il nuovo Compass Confusion del "gruppo" di Craig Taborn è un disco grandioso

Craig Taborn Junk Magic
Disco
jazz
Junk Magic
Compass and Confusion
Pyroclastic Records
2020

Nel giardino magnetico di casa Junk Magic, discograficamente parlando, non ci rimetteva piede dal 2004. All'epoca del talento di Craig Taborn, dopo l'apprendistato alla scuola di Roscoe Mitchell e il diploma con lode nella classe di Tim Berne, si iniziava a intravedere la sconfinata vastità. Fu proprio quel disco però, uscito su Thirsty Ear nella collana The Blue Series diretta dal pianista Matthew Shipp, a far saltare il banco delle aspettative. Non era “solo” un grande musicista e un fantastico improvvisatore quello che avevamo ascoltato in Nine to Get Ready, The Shell Game e Science Friction, ma un profeta del nuovo jazz. Epifania confermata da una successiva carriera in clamoroso crescendo, scandita da lì in poi da una serie di acuti spettacolari e culminata nella doverosa consacrazione a gigante dei nostri tempi.

– Leggi anche: Craig Taborn, il più incredibile pianista in circolazione

Sedici anni dopo quel primo capitolo, finalmente (e un po' a sorpresa) Taborn riannoda i fili del discorso interrotto. Curioso che anche stavolta ci sia di mezzo una pianista: Kris Davis, che nel 2016 ha fondato l'etichetta Pyroclastic Records e che da allora ha offerto un porto sicuro ad artisti come Chris Lightcap, Ben Goldberg, Eric Revis (notevole il recente Slipknots Through a Looking Glass) e Nate Wooley.

Niente ECM, quindi, anche perché Compass Confusion non ha nulla a che spartire con l'estetica precisina e a modino che va per la maggiore dalle parti di Monaco di Baviera. Sette i brani in scaletta, a tratteggiare le curve a gomito e i tornanti di un vertiginoso percorso a sbalzo sul lato meno addomesticabile del Taborn-pensiero. David King (batteria ed elettronica), Chris Speed (sax tenore e clarinetto), Erik Fratzke (basso) e Mat Maneri (viola) i complici e compagni. Gli stessi che dal 2004, tra andate, ritorni e lunghissime pause, hanno tenuto in piedi una band che una band non è, e che al di fuori dalla dimensione live (chi scrive custodisce gelosamente il ricordo di un concerto del 2008) funziona come un generatore di materiale grezzo. Si parte dalla scrittura, da una progressione, da uno schema ritmico, si passa attraverso la resa in studio, con il suo surplus di imprevedibilità, e si arriva alla post-produzione, che Taborn-Junk Magic affronta con il piglio libertario dell'improvvisatore puro, radicale. Seguendo il flusso delle intuizioni, complicando e sovrapponendo, deviando e moltiplicando i punti di vista in un gioco meta-narrativo di specchi deformanti.

Il risultato? Un disco sporco, denso, colloso, al quale si resta appiccicati non senza una certa inquietudine. Elettronico e spregiudicato, claustrofobico ma grandioso. Taborn c'è, se ne intravede la sagoma precisa e inconfondibile, lo si può quasi afferrare nelle reiterazioni circolari e ipnotiche dell'iniziale “Laser Beaming Hearts”, che ripulita e ripettinata potrebbe fare la sua figura tra i ritagli di Daylight Ghosts; o nel cubismo allucinato e cameristico dell'imprevedibile “The Science of Why Devils Smell Like Sulfur” (a proposito, gran titolo). Però dura un attimo l'illusione di potersi aggrappare a qualcosa di familiare, di solido. Astrazioni ambient alla “Dream and Guess”, irrisolvibili enigmi kraut come i nove minuti di “Compass Confusion/Little Love Gods”, l'aritmica “Sargasso” con il suo battito robotico, le pennellate di synth della struggente “Sunset Forever”: non ci sono stelle nel cielo, nessun sentiero da seguire, zero indicazioni.

Nel giardino magnetico di casa Junk Magic tutti prima o poi finiscono per perdersi.

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