Il jazz tridimensionale di Binker & Moses
In Feeding the Machine, nuovo lavoro del duo londinese Binker & Moses, sax e batteria interagiscono con le macchine elettroniche
Ascoltandolo in maniera distratta, non so bene perché – viste le differenze sul piano formale: qui c’è ritmo, là no, la più appariscente – avevo associato istintivamente Feeding the Machine di Binker & Moses a Promises, l’acclamato album di Floating Points e Pharoah Sanders.
Dopo mi è tornato in mente un dettaglio dimenticato: in un singolo di qualche anno fa, “Rye Lane Shuffle”, Moses Boyd aveva effettivamente collaborato con il produttore di Manchester (al mixer c’era pure Kieran “Four Tet” Hebden, se è per questo…).
Dovendone poi scrivere, ho approfondito e l’analogia è diventata spiegabile. Artefici in precedenza di due lavori in coppia, Dem Ones (2015) e Journey to the Mountain of Forever (2017), cui ne andrebbero aggiunti altrettanti realizzati dal vivo, il batterista Boyd e il sassofonista Binker Golding, entrambi allievi del programma educativo “Tomorrow’s Warriors”, incubatore della nidiata che ha ridato linfa e slancio alla scena jazz londinese, da allora si erano dedicati alle rispettive attività individuali, il primo firmando l’eccellente Dark Matter (2020) e il secondo creando in quartetto il notevole Abstractions of Reality Past and Incredible Feathers (2019).
Aspettavano il momento propizio: «Avevamo bisogno di accumulare un po’ più di esperienza per affrontare un disco del genere», ha chiarito Boyd. E inoltre cercavano altro, così hanno messo in gioco un terzo elemento: Max Luthert, abitualmente contrabbassista (e in quella veste con loro nella band della cantante Zara McFarlane), ma nell’occasione incaricato – suggerisce il titolo – di alimentare la Macchina, ossia sintetizzatore modulare, campionatore e nastri magnetici in loop. Registrato come fosse una session d’improvvisazione negli studi Real World con la produzione dell’esimio veterano Hugh Padgham, l’album è – in una parola sola – impressionante.
Ecco, ad esempio, “Accelerometer Overdose”: inizia in chiave ambient, tra le geometrie frattali tracciate da Binker e il caos organizzato dalle bacchette di Moses, squadrandosi quindi su una cadenza di estrazione hip hop, mentre gli echi generano replicanti del sax tenore e verso la fine affiora un timbro ineffabile di tastiera che sembra provenire dall’orbita saturnina di Sun Ra.
È come se le proprietà dei singoli, ovvero la destrezza ritmica di Boyd, cresciuto studiando jazz e ascoltando grime, con memoria genetica antillana (madre dominicana e padre giamaicano) di sottofondo, e le capacità polmonari di Golding, estro in bilico fra Coltrane e Rollins, perfezionato nella tecnica di respirazione circolare modello Evan Parker, in questa circostanza apprezzabile in particolare nel vortice di soprano del conclusivo “Because Because”, fossero state magicamente moltiplicate dal nuovo contesto.
Valgano a dimostrarlo “Feed Infinite”, popolato da sonorità di consistenza ectoplasmatica, e soprattutto “After the Machine Settles”, dove varie interferenze ottenute – pare d’intuire – filtrando gli strumenti contrastano dialetticamente il nucleo del brano, fondato su groove iperfunk e alati gorgheggi d’ancia.
L’azione di Luthert è dunque essenziale, poiché spinge il suono di Binker & Moses fuori dall’alveo del jazz tradizionalmente inteso, rendendolo tridimensionale: ancora riconoscibile in quanto tale, ma proiettato altrove. Tipo la Cometa pilotata da Shabaka Hutchings, però su traiettorie introspettive. O, appunto, una versione speculare delle Promesse fatte lo scorso anno dal Faraone insieme al Neuroscienziato.