Il fascino discreto del mainstream
Una compilation Wewantsounds raccoglie perle anni Settanta dalla Mainstream di Bob Shad
L’introduzione del termine mainstream nel jazz si deve al critico inglese Stanley Dance, che a metà degli anni Cinquanta definiva così quei musicisti che, nella diatriba del tempo tra “modernisti” bebop e “tradizionalisti” dixieland si collocavano in una terza via.
Si trattava all’epoca di musicisti – eccellenti, va da sé – che dalle esperienze delle big band si spostavano verso esperienze di combo più agili e snelli, ma continuando a lavorare su temi standard, di immediata riconoscibilità per il pubblico.
Da allora – con una capacità evolutiva che segue necessariamente quella delle innovazioni – il termine ha continuato, con maggior o minore evidenza a seconda dei periodi e delle opportunità, a indicare una serie di linguaggi fondamentalmente “acquisiti”, storicizzati e – a dirla tutta – sostanzialmente esauriti nella loro spinta innovativa, quand'anche forieri di pregevolezze strumentali e improvvisative.
Inutile dire che le cose sono meno nette di quanto sbrigativamente riassunto qui sopra e che, nonostante le immortali scaramucce tra i – soi-disant – guardiani dello swing e gli esploratori dell’ignoto, l’attuale scenario espressivo e produttivo del mondo del jazz rende piuttosto inefficaci queste divisioni.
Mainstream è anche il nome dell’etichetta che Bob Shad (produttore che seppe passare da Charlie Parker a Janis Joplin, via Platters, con eguale efficacia) inaugurò nel 1964, dapprima ristampando il catalogo della Commodore e poi virando rapidamente su rock e colonne sonore. L’amore per il jazz tornò però prepotente nei primi anni Settanta, quando con la 300 Series l’etichetta riprese a produrre novità di ambito black: jazz, soul e funk.
A questa produzione, che durerà un lustro, tra novità e ristampe, è dedicata la raccolta This Is Mainstream, in uscita per la WeWantSounds. Il doppio vinile (ma anche disponibile in cd) raccoglie 13 pezzi pubblicati tra il 1970 e il 1973, anni di intenso scambio tra i linguaggi della musica nera.
Si parte con il funk killer di Saundra Phillips e la sua “Miss Fatback”, per proseguire con gli Afrique – bella band di sessionmen guidata da Chuck Rainey – che rilegge il Bill Withers di “Kissing My Love”. Undici minuti di pura delizia sono quelli di “This Moment”, liquida magia che sgorga dalle dita del pianista (qui elettrico) Hal Galper e dai fiati dei fratelli Brecker.
Il secondo lato si apre all’insegna del blues acido dei December’s Children, seguiti dalla tromba soulful di Blue Mitchell, da una sontuosa Maxine Weldon che accarezza “Make It With You”, per chiudersi con il pianismo terragno di Reggie Moore.
Jay Berliner rilegge “Papa Was A Rolling Stone” con la sua chitarra aguzza (il pezzo è tratto da un disco con un titolo davvero assurdo, Bananas Are Not Created Equal), Dave Hubbard – che qualcuno ricorderà nei dischi di Lonnie Liston Smith – è al flauto in “T.B.’s Delight”, Almeta Latimore con “These Memories” è un piccolo gioiello mid-tempo Northern Soul, mentre ancora Bill Withers è coverizzato (qui “Lean On Me”) da Buddy Terry.
L’ultima facciata si apre con un’altra perla: “Bird and The Ouija Board” (anche qui che titolo!) del sassofonista Pete Yellin, in compagnia di Eddie Henderson alla tromba, Kenny Barron al piano elettrico, Stanley Clarke al basso e Billy Hart alla batteria. Dopo una lunga intro di tipica astrattezza cosmic, il gruppo si coagula attorno a un contagioso giro di basso e esplode un tiro funk davvero notevole.
Chiusura con Sarah Vaughan e l’elegante tre quarti di “Just A Little Lovin’”… che volere di più?
Raccolta consigliata per tutte le nostalgiche canaglie e appassionati/e di gemme poco conosciute, è anche un’occasione per riscoprire il lavoro di Bob Shad e la sua Mainstream. Ormai storicizzata sì, ma sempre di classe!