Il colore cubano di Roberto Fonseca
Yesun, il nuovo disco del pianista cubano Roberto Fonseca, è contaminazione pura nell’esaltazione delle radici
«Lo spirito di Cuba è meticcio. E dallo spirito alla pelle arriverà definitivamente il colore. Un giorno si dirà color cubano». Sono i versi del poeta cubano Nicolás Guillén, poeta nazionale dell’isola noto per la sua poesia legata alla cultura afrocubana, connessi alle profonde iniezioni africane, alle tante correnti capillari che s’insinuano nella terra.
Yesun (gioco di parole che simboleggia l’acqua) è il nono disco del pianista Roberto Fonseca. Fonseca, talento del pianoforte jazz cubano e non solo (indimenticabile il suo live a Jazz in Marsiac nell’agosto 2010), mescola etnie musicali, ne fa una regola di vita e nel frattempo continua l’elaborazione spirituale delle proprie radici, come il poeta Guillén faceva ostinatamente con i suoi versi mulatti.
Yesun (prodotto da Fonseca con Daniel Florestano) apre tutti i porti, abbatte le chiusure, sceglie di non difendersi, ma di contaminarsi fluidamente con la diversità. Gli oceani sono liberi, l’acqua scorre e finalmente può arrivare ovunque, dalla Nigeria (afrobeat), al Brasile (bossa nova), fino all’America (jazz contemporaneo e hip hop). È un manifesto sfaccettato, un lavoro continuo e incessante di ricerca e di studio. «È il disco che ho sempre voluto incidere: riunisce tutte le mie influenze, i suoni e le atmosfere musicali che mi hanno reso quello che sono», afferma Fonseca.
In Yesun c’è la rosa malinconica del passato, l’inquietudine di una bandiera che sventolando ricorda un dolore imprigionato. C’è la distanza e la fragilità della memoria, il volto della rivoluzione e dell’orgoglio nazionale. Ci sono le ombre, i silenzi, la gioia immensa della festa e il rumore pesante delle catene. C’è la dimenticanza della grazia, le tegole rosse delle case, il movimento incessante del corpo, le grandi strade deserte e il richiamo dell’unica guerra che l’uomo avrebbe dovuto combattere, quella con la propria coscienza. Le dodici tracce sono continue scoperte sonore, si intrecciano l’una dopo l’altra e progressivamente disegnano l’idea di una società che si riconnette con la natura, di una cultura aperta che abolisce il concetto di genere, procedendo verso un insieme eterogeneo di impulsi musicali.
I brani sono stati incisi in trio con i compagni di lunga data del compositore de L’Avana: il batterista Raúl Herrera e il suo storico bassista Yandy Martínez Rodriguez. Tra gli ospiti, Joe Lovano, l’acclamato trombettista franco-libanese Ibrahim Maalouf, il cantante e rapper cubano nominato ai Grammy Danay Suarez e la celebre diva del bolero Mercedes Cortés. L’album è un inno ai contrasti, un mix di jazz, funk, musica classica e incursioni ritmiche della tradizione afrocubana (rumba, mambo, tumbao).
La porta sul mondo di Fonseca si apre con il brano “La Ilamada”. Un pianoforte percussivo e infiammato ci indica la direzione, mentre i cambiamenti ritmici vengono sostenuti dalle voci eteree del quartetto femminile cubano Gema 4 (Tal Ben Ari, Odette Tellería, Michèle Alderete e Laura Flores). Dal ritratto jazz si vola verso le atmosfere di “Kachucha”, tra rumba, mambo e cha cha e la tromba di Ibrahim Maalouf, che sale solitaria verso le vette più alte di montagne lontane per donare un soffio benefico al mondo, rimanendo ancorato alla terra cubana. Del resto, è proprio Fonseca a ricordarcelo, tra un glissando e l’altro e accordi scattanti, con quel timbro orgoglioso e leggero che lo contraddistingue: «Ah de Cuba yo soy», sostenuto dalle voci di Mercédes Cortes e Yipsi Li. Lo stacco successivo è netto, con “Cadenas” entriamo nelle stanze del prog-rock, ci restiamo, ma quando arriva il rapper Danay Suarez saltiamo dalla finestra per ritornare a danzare tra le strade de L’Avana, sperando di convincere l’umanità ad aprirsi di più.
Il brano successivo è un esempio di maestria tecnica e di estetica classica. “Por ti” è uno squarcio improvviso nell’animo che immobilizza le nostre emotività. Gli studi classici di Fonseca (da Chopin, a Grieg, fino a Rachmaninov) qui si fondono, per dare origine a una traccia fuori dal tempo e da qualsiasi spazio. Come un torrente improvviso veniamo travolti da “Aggua”, una miscela di mambo, rumba, hip hop, discese cromatiche del pianoforte (come lampi nell’atmosfera) e le congas scalcianti di Adel González. Dal suono profondo di una Cuba irrequieta, alla fine del disco, si prendono strade nuove, cariche di una tensione elettrica vertiginosa (richiamando Herbie Hancock), protesa con audacia verso il progresso, fatto di sperimentazioni liberatorie (in “Motown e in “OO”), di un crescendo scatenato, merito anche degli assoli fiammeggianti di Lovano, accompagnato da Fonseca, Herrera e Rodriguez (in “Volo”). Tutto si chiude con “Clave” e con il campionamento dell’icona della rumba Carlos Embale, su un ritmo funky.
Yesun è inciso su un muro senza base, arriva lontano, come lo sguardo del bambino gigante raffigurato sulla parete del Barrio Chino de L’Avana, che guarda oltre la hỳbris schiacciante dell’uomo, oltre la sua codardia. Yesun è la sfida della diversità che crea rotture nella storia, è ricerca costante dell’altro. È il dialogo intimo tra ciò che siamo e ciò che vorremmo essere. Roberto Fonseca spalanca le porte, non teme il contagio, anzi lo ricerca nel suo linguaggio musicale, continuando ad abitare tenacemente le proprie radici.