Franco D'Andrea, un ottetto di esploratori

Intervals I del Franco D'Andrea Octet è registrato dal vivo all'Auditorium Parco della Musica

Franco D'Andrea Octet
Disco
jazz
Franco D'Andrea Octet
Intervals I
Parco della Musica Records
2018

Un trillo di tasti bianchi e note nere, quasi uno Stravinsky dedito al blues, poi l’elettronica ad aggiungere quanti di astrazione al tutto e il fraseggio del piano che si arrampica come un’edera, libera, forte e rigogliosa, per poi fermarsi su un basso ostinato ed equatoriale su cui prende vita la pulsazione che sostiene l’edificio intero.

Così si apre il sipario su Intervals I, il primo di due volumi già annunciati (il prossimo uscirà in autunno) per il Franco D’Andrea Octet, qui registrato dal vivo presso l’Auditorium Parco della Musica di Roma. Il pezzo omonimo è una sintesi felicissima di umori saturnini, orchestrazioni piene e aperte e un sentimento africano per nulla didascalico, che informa profondamente il brano. Nel finale il trombone di Mauro Ottolini e i beat di DJ Rocca sembrano ipotizzare una nuova New Orleans, che poi si dissolve in nebbie enigmatiche. Difficile immaginare un inizio più riuscito.

Si prosegue in modalità esplorativa con "Afro Abstraction", il groove si fa strada tra una giungla di ottoni, la batteria di Zeno De Rossi intesse una tela sostenuta da Rocca, la chitarra di Enrico Terragnoli è ultraminimale e ipnotica, appare e scompare, tutto suona perfettamente  dosato, torna in mente On the Beach di Phil Cohran & The Artistic Heritage Ensemble: la stessa scienza del groove, qui solamente infusa di suoni più urbani, ma il concetto suona felicemente simile.

È comunque esercizio non semplice e molto probabilmente gratuito quello di cercare assonanze col mondo sonoro creato dall’Ottetto, un vero e proprio organismo pulsante capace di muoversi con insospettabile leggerezza. Come insegnavano James Brown e Mies Van Der Rohe, less is more, e gli otto musicisti non strafanno mai, sempre attenti a seguire le orme lasciate dal pianista, ancora capace di cercare semplicemente un altrove, un posto non conosciuto. I dodici minuti abbondanti di questa improvvisazione ne sono plastica dimostrazione. Ogni episodio andrebbe raccontato, zeppo com’è di specchi, prospettive, mondi paralleli, anelli di Moebius, punti di fuga, espedienti narrativi nascosti ed evidenti al tempo stesso: l’elettronica sempre sottile, insinuante e puntuale, mai di troppo; l’approccio vicino all’elettronica, proprio come modus operandi, anche degli altri musicisti coinvolti, abilissimi nel centellinare il proprio contributo, nel dare spazio alla propria voce solo laddove necessario allo svolgimento di una trama fittissima e al tempo stesso miracolosamente lieve...

Sono virgole fondamentali e parentesi mai superflue. Il tutto è assolutamente funzionale a un discorso che parla una lingua inedita eppure familiare. Non si tratta altro che dello spirito originario del jazz, della sua incoercibile natura metamorfica, che possiamo ammirare in "Intervals 2/ M2+m3", tra fantasmi di Bitches Brew e memorie di Real Book senza nemmeno un’unghia di polvere addosso, in un respiro sempre largo e consapevole, in una musica sinuosa e notturna, mai svenevole, avventurosa ma affatto casuale, fluida e meditata, naturale e costruita al tempo stesso, con una sapienza che diremmo architettonica.

Sapienza che trova ottimi interpreti nei musicisti dell’ottetto (Andrea Ayassot ad alto e soprano, Daniele d’Agaro al clarinetto, Mauro Ottolini al trombone, Enrico Terragnoli alla chitarra, Aldo Mella al contrabbasso, Zeno De Rossi alla batteria e Luca Roccagliati, ai più noto come Dj Rocca, all’elettronica), cruciali e invisibili al tempo stesso e davvero bravi nel fare un passo indietro. L’ego strumentale di ciascuno è secondario, ci sono spazi per gli assoli, ma senza esagerare: la tradizione viene sì rispettata, come è giusto che sia, ma funge da trampolino di lancio per un viaggio in altri posti (ascoltate ad esempio "A4+m2", quasi un Monk ubriaco e rivisto con lo sguardo sbilenco e teatrale del jazz olandese).

"Air Waves" si apre con un saggio di bravura di D’Andrea, labirintico e corrusco, come un Bley appena più scontroso, mentre l’elettronica apre fiordi e suggerisce vertigini, poi, dopo aver salito e sceso milioni di scale, il piano trova una cellula tematica minima ed incalzante, su cui si rapprende un groove stranito eppure intimamente negro, che non indulge al puro funk solo per le deviazioni che si presentano lungo il cammino, vuoi una chitarra à la Henry Kaiser o una febbre da ensemble largo che ha un che di orgiastico e rituale, per poi spegnersi sulla stessa frase elementare che lo ha incendiato. Si inerpica su vette avant electro jazz "Intervals 3/ Old Jazz", capace di indugiare su circuiti fertili e dal cuore di silicio per poi aprirsi su astrazioni novecentesche e infine sfociare, come da titolo, su uno shuffle tradizionale e pieno di brio, come un ritorno a casa dopo una gita nello spazio.

Paradigmatica dell’approccio del leader e della band tutta "Traditions N.2", che si adagia su un mood più classico mantenendo però un quid di benvenuta e imprendibile stranezza, un che di vagamente alieno, sulla scia di Sun Ra, diremmo. Chiude il live "Intervals 4", tra un contrabbasso furtivo che insegue spazzole nella notte, i fiati a coprire la fuga, la chitarra  a simulare appostamenti, il piano, indomito, a investigare, e un mood generale da caos calibrato che mette la parola punto, improvvisamente, a un disco su cui tornare per scoprire ogni volta angoli diversi, e che lascia con la grande curiosità di sentire il secondo volume – e di vedere, speriamo presto, l’ottetto in azione dal vivo.

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