Francesca Naibo, i confini della chitarra
Namatoulee è il disco d'esordio della chitarrista Francesca Naibo, tra improvvisazione e sperimentazioni "colte"
La chitarrista veneta, milanese d’adozione, Francesca Naibo, qui alla prima convincente prova discografica, compie un’operazione sempre molto affascinante e però rischiosa, ovverosia coniugare la libera improvvisazione, di più stretta derivazione jazzistica, con alcune delle più sperimentali prassi, in campo sonoro e procedurale, appartenenti al campo della cosiddetta musica contemporanea, di colta estrazione accademica.
I due mondi si parlano, o possono parlarsi, e però fino a un certo punto, nel senso che l’intrinseca rigorosa coerenza “formale” (anche quando di spartito e “cornici” non ci sia nemmeno l’ombra), e potremmo dire fisica (in riferimento alla meticolosa costruzione e poi limpida emissione del suono), tipica della musica eurocolta non sempre va del tutto a braccetto con la più “svalvolata” e timbricamente personale, anche se non meno disciplinare, radicale estemporaneità, figlia degli sviluppi più euristici e divergenti delle avanguardie afroamericane.
Francesca Naibo, che in questo suo solitario Namatoulee, “armata” di tutta la sua padronanza strumentale e coinvolgente passione (che le ha già permesso di collaborare con personaggi del valore di Marc Ribot e George Lewis), è all’avventurosa e visionaria ricerca di una musica “pura”, astratta, non classificabile, potremmo dire universale, e al contempo non certo metafisica, ineffabile, eterea, ma anzi materica, certosinamente “preparata”, finemente tellurica, vi riesce davvero alla perfezione, come una sorta di novella Mary Halvorson originaria di Vittorio Veneto.
Merito anche di una ripresa del suono eccezionale, effettuata nel luglio scorso da Stefano Castagna, presso lo studio Ritmo & Blu di Pozzolengo (BS), come se una serie di piccoli cibernetici microfoni fossero direttamente applicati sulle corde della sua chitarra semiacustica.
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Naibo qui riesce a indagare coraggiosamente, in profondità, le molteplici potenzialità soniche e discorsive della sua magica riverberante sei corde (per altro mai ricorrendo alla tecnica della sovraincisione), con l'obiettivo sì di andare oltre i limiti del proprio strumento elettroacustico, cercando di ampliarne il naturale registro timbrico (ed ecco quindi l'uso di oggetti, rumori controllati, ma anche di accordature inusuali, e poi di semplici misurati effetti – delay, overdrive, sound retainer, ring modulator), ma allo stesso tempo di non perdere di vista la specifica avvincente qualità chitarristica del suo suono e del suo particolare tocco.
I titoli delle composizioni (o insiemi di variegati imprevedibili episodi sonori), affidati a ciascun brano soltanto dopo la registrazione, propongono un’evocativa traduzione in fonemi dei suoni e delle atmosfere che vi dispiegano (che di per sé non vogliono significare proprio nulla, se non quel che ognuno vi vuole sentire), sì da creare una suggestiva serie di parole in un’immaginifica “neolingua” dei suoni che in realtà non esiste, magari lontanamente rievocante (guarda caso) gli ancestrali e tonali “dialetti” dell’Africa subsahariana. Magistrale.