Ethan Iverson versione mainstream
Il pianista ex Bad Plus alla testa di uno swingante quartetto in un live ECM dal Village Vanguard
In questo magistrale live al Village Vanguard di Manhattan, tempio laico (e però mai sconsacrato) della storia del jazz, l’ormai veterano pianista Ethan Iverson, classe 1973, di stanza nella “dirimpettaia” Brooklyn, è alla guida di un quartetto classico, che swinga sontuoso, in perfetto “moderno” mainstream style, non privo di gusto, freschezza e contenuti emotivi (con forse solo un pizzico di retorica), in equilibrio tra qualche standard (l’iniziale "The Man I Love", per esempio, la successiva "I Can’t Get Started", la felpata "Sentimental Journey" o ancora la più volteggiante "All The Things You Are"), e alcune intriganti composizioni originali dal passo bluesy, come nel caso della sorniona "Philadelphia Creamer".
L’ispirato e colto Iverson, dal tocco morbido e sussurrato, “approfitta” al meglio del suono fragile, poroso, poeticamente svisato, e però preciso, del decano, impeccabile, Tom Harrell (classe 1946), votato nel 2018 come miglior trombettista dell’anno dalla U.S. Jazz Journalists Association; e poi delle eleganti evoluzioni di una brillante sezione ritmica d’antan (sembra quasi di risentire il tintinnio dei piatti e l’inimitabile tocco di Max Roach, le cui bacchette erano come mani non semplici utensili, e magari le note nebulose e soffici di un Ray Brown), composta da Ben Street al contrabbasso ed Eric McPherson alla batteria. I quali di meccanico per fortuna non hanno proprio nulla, capaci come sono di giocare di continuo tra backbeat ed agile propulsione in avanti, in una parola di swingare (inteso come verbo, non come sostantivo).
Il jazz e la vita sono da tempo andati altrove o più in là (articolatisi in mille diramazioni e “derive”), almeno dalla febbrile e visionaria svolta elettrica, funkadelica, davisiana, della quale ricorrono proprio in questi mesi i cinquant’anni; Iverson, che negli “iconoclasti” The Bad Plus ha cominciato, è il primo a saperlo, ma ogni tanto tornare ad indossare delle vecchie e comode pantofole, ad abitare una comune e consolidata “pratica” di riferimento, può senz’altro essere confortevole.
D’altronde negli ultimi trent’anni, messe da parte, quantomeno si spera, le tediose (se non odiose) diatribe degli anni Ottanta sul concetto di vera tradizione, si è assistito spesso alla confluenza negli stessi interpreti, magari in relazione a diversi contesti, di una rispettosa osservanza di certi stilemi, tecniche e repertori, e poi invece di un simultaneo e coraggioso (se non doveroso) scompaginamento delle carte in tavola.
Perché, in fondo, l’unica tradizione possibile nel jazz, quasi una forma di condanna (ma lo diciamo con il sorriso), da considerare come un metodo più che come uno specifico genere musicale, è quella che appartiene all’idea di un’eterna, mirabolante ed imprevedibile reinvenzione.
Bravi comunque (altroché).