Embryo, liberi e fuori di testa
Una registrazione degli Embryo del 1977 al festival Umsonst & Draußen in Germania
“Liberi e fuori di testa”: questa potrebbe essere la traduzione del titolo di questa splendida registrazione degli Embryo saltata fuori dagli archivi, ad arricchire una discografia già di per sé piuttosto imponente. Umsonst & Draußen è in realtà il nome del Festival alternativo di Vlotho, in Germania, tuttora presenza rilevante sulla scena underground, o quanto ne rimane, un quarantennio dopo.
I tedeschi Embryo nel grande mare del kraut rock anni Settanta con proficue vicinanze al jazz sperimentale, alle avanguardie classiche, alla ricerca elettronica ed etnica hanno uno dei primati di presenze discografiche. Il gruppo ideato e guidato per decenni da Christian Burchard è oggi sotto la direzione della figlia Marja, presto cooptata dal padre nella formazione aperta.
Com’è noto gli Embryo hanno rappresentato per il jazz rock europeo una delle realtà più eclettiche e anticipatrici: la ricerca, per loro, ha sempre coinciso con il confronto a tutto campo con le culture tradizionali musicali da tutti i continenti, con un focus più particolareggiato sull’Oriente e l’Africa. Anche lo strumentario ha spesso incorporato attrezzi per le note non occidentali, e già in tempo in cui neppure esisteva la parola per indicare le musiche di contaminazione. Un po’ come succedeva in Italia con gli Aktuala, in pratica, che con gli Embryo condivisero almeno un musicista, il funambolico percussionista Trilok Gurtu.
Questa registrazione del ’77, di ragguardevole livello tecnico, vede all’opera la formazione degli Embryo che proprio con Gurtu aveva appena inciso un ottimo disco, Apo-Calypso. Qui i ranghi però sono serrati in una formazione a cinque che esclude i consueti strumenti etnici, col risultato che l’impianto timbrico con vibrafono, tastiere, chitarra elettrica e ritmica è decisamente vicino al jazz rock del periodo, quello di Nucleus e Soft Machine coevi, per intendersi. Ma con un pizzico di follia teutonica in più. Dunque brani dilatati e lievemente psichedelici, a volte sopra la campitura dei dieci minuti, con una deliziosa patina timbrica retrò, lunghe escursioni inchiavardate su pedali modali, un continuo gioco a rimpiattino tra chitarra, vibrafono e tastiere, sporadici interventi vocali (la parte meno significativa del tutto) che restituiscono il clima del momento.
L’atmosfera attorno, si coglie, è decisamente calda, forte di 25mila persone: evidentemente gli Embryo del ’77 avevano una marcia in più. E una comunicativa compiuta che li faceva stare sul palco con la naturalezza dei Grateful Dead, mutatis mutandis, dall’altra parte dell’oceano. Un reperto d’epoca comunque prezioso.