Cipelli-Fresu, teoria dei giochi
L’Equilibrio di Nash è il nuovo lavoro del pianista Roberto Cipelli, in duo con Paolo Fresu
C’è un brano che lega questa prima munifica collaborazione in duo tra due amici di vecchia data a un altro impareggiabile momento di interscambio musicale tra due astri della storia del jazz quali Chet Baker e Paul Bley, che nel 1986 chiudevano il loro più malinconico, meno spensierato, Diane con l’intima e intensa “Little Girl Blue”, struggente magistrale ballata da cui Roberto Cipelli, pianista dell’ormai storico blasonato Paolo Fresu Quintet, e lo stesso Paolo Fresu hanno preso spunto e linfa, per intraprendere questo loro personalissimo pregevole percorso lirico e musicale.
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Tra le metafore dell’interplay, l’arte del suonare assieme a partire in primis dall’estemporaneo reciproco ascolto, può in effetti esserci quella del cosiddetto Equilibrio di Nash (qui esemplificato nella colorata, elegante, vorticosa, immagine di copertina dell’artista bresciana Paola Pezzi), celebre definizione estrapolata dalla teoria dei giochi, con la quale si fa riferimento a tutta quella serie di strategie che permettono a ciascun giocatore di effettuare ogni volta la scelta migliore (in risposta ovviamente a quella effettuata dall’altro o dagli altri), tale da garantire sempre il migliore risultato possibile, sia sul piano individuale che collettivo.
In quest’ottica, a ogni ardita mossa non può che corrisponderne sempre un’altra altrettanto coraggiosa e bilanciante: una maniera attraverso cui l’equilibrio, come sulle ali di un’ideale bicicletta in corsa, trova sempre il modo di mantenersi costante, rinnovandosi nel tempo.
Ed ecco che qui, a qualche ottimo originale del pianista cremonese, e all’ampia variegata scelta di riproposizioni (da Sting a Mercedes Sosa, da Chopin a un paio di suggestivi coinvolgenti brani di Monteverdi – che Cipelli e lo stesso Fresu hanno molto studiato negli ultimi anni –, passando per Caetano Veloso e la più datata canzone “popolare” italiana), si aggiungono tre improvvisazioni più libere e disancorate, diversamente numerate (sì), e però tutte intitolate o meglio connotate dalla parola “strategia”, nelle quali, accanto al difficilmente comparabile, lieve, forbito, impeccabile, sinergico gusto musicale e melodico dei due protagonisti, riesce a farsi strada anche una più contemporanea, ardita, complementare ricerca sonora, funambolicamente votata ad una maggiore astrazione del “discorso”.
Paolo Fresu – ci si perdoni il paragone scontato – appare sempre più come una sorta di moderno Re Mida, davvero nel senso che tutto quel che tocca sembra ormai risplendere immediatamente come oro (lo si ascolti solo che nella celebre commovente "Alfonsina y el Mar" dell’indimenticabile Mercedes Sosa o nella wilderiana e sognante "Pure Imagination").
Un Fresu che in questi anni, soprattutto mesi difficili, dà sempre più l’impressione, con il suo talento, la sua versatile personalità artistica, la sua inesausta attività (anche dal vivo, pandemia permettendo), la profondità e al contempo la cantabile fruibilità del suo operare, di essersi caricato generosamente sulle spalle le sorti del jazz e più in generale della musica italiana.
Nell’occasione lo troviamo a sostegno delle scelte musicali di un pianista di notevole talento (che ovviamente non scopriamo oggi), raffinato, “leggero”, armonicamente ricco, dal morbido tocco evansiano, forse mai così in vista, perfetto per disegnare insieme all’inimitabile “voce” del trombettista sardo l’infinita serie di poetici larghi qui mirabilmente dispiegata. Una meraviglia.