Cavallanti e il miracolo del rinnovamento del jazz
Shadows è il secondo lavoro del sassofonista con il quartetto A World of Sound
Le età di un attimo, le epoche di un istante, quando si viene rapiti da un suono lampo, ritrovarsi lungo un sentiero che riporta alle origini, alle radici, mentre il vento della Storia deposita polvere su questa terra; fuochi di artificio a farci ritrovare ancora una volta il senso di tanto tempo passato seduti alla scrivania ad ascoltare: è come un fuoco che vive dentro e niente lo può spegnere; è proprio una benvenuta memoria della Fire Music che fu di Archie Shepp e di tanti altri giganti afroamericani che accogliamo ad orecchie aperte con "Trance Music", la traccia con cui si apre Shadows, l'ottimo secondo lavoro del quartetto del sassofonista Daniele Cavallanti A World of Sound.
Nexus, musica al collettivo - intervista a Daniele Cavallanti e Tiziano Tononi
È un suono che custodisce urgenza, e scintille, che si muove nel solco di una tradizione senza inventare nulla ma che ha dalla sua ispirazione, concentrazione, passione, verità.
Nove tracce tra cui sei numeri autografi del leader (accompagnato da Francesco Chiapperini a sax alto, clarinetto basso e flauto, Gianluca Alberti al basso e Toni Boselli alla batteria), due versioni di Wayne Shorter ("Juju", dall'omonimo album su Blue Note del 1965, riproposta in modo fedele, e "Infant Eyes", da Speak No Evil del 1964, parzialmente sottratta al suo raccolto tepore per farne un inno più libero ritmicamente, più sanguigno e meno meditativo) e un traditional della tradizione natalizia inglese, "God Rest You, Merry Gentlemen", reso con efficace piglio ayleriano.
Tra elegia e rivolta si muovono queste composizioni-manifesto, mosse da una febbre sottile e inesorabile, con una sezione ritmica affilata, aerea, puntuale, capace di aprire parentesi, mettere virgole nel discorso dei fiati, tra momenti più melodici ed astrazioni meno definibili dove si intravede il profilo del Coltrane più lirico e selvaggio, in viaggio verso gli spazi interstellari.
Un mood notturno, da film di Otto Preminger o di Cassavetes, attese, agguati, una poesia diffusa e naturale che anima le movenze feline di questo quartetto, composto da quattro interpreti in fiamme che inseguono profili sfuggenti ("Impro n°2") rendendo avvincente per chi ascolta questa ricerca. Sembra di stare costantemente su un bilico o su un precipizio, un'atmosfera languida e pericolosa informa ogni traccia, dallo swing magnifico di William Parker, tributo al colossale bassista americano al bop spiritual di "Anam", in memoria di Tiziano Terzani.
Chiude quest'ora abbondante di musica lirica, tesa e capace davvero di schiudere mondi "Harry Miller", vibrante e pagana rituale pagano in memoria dell'omonimo bassista sudafricano, che ha condiviso tante avventure con musicisti del calibro di Mike Westbrook, Chris Mc Gregor, Louis Moholo e Keith Tippett.
Ed è proprio con una rinfrancante sensazione di avventura rinnovata che si ascolta e si riascolta questo disco, un benefico bagno nel fiume eracliteo del jazz dove tutto scorre ma le sorgenti restano intatte e ha ancora senso tornare a rivolgersi verso di esse, a patto che non lo si faccia con spirito meramente calligrafico, ma animati dallo stesso fuoco sacro che muoveva i giganti, inseguendo profili ed ombre che, sebbene storicizzati, ancora chiedono di essere cantati e rivisitati, perché il Suono è un alfabeto-mondo misterioso di cui probabilmente, e fortunatamente, non potremo mai decifrare ogni segno.
Cavallanti con il suo quartetto, forte del suo sterminato curriculum (parliamo di uno che ha suonato, tra gli altri, con Cecil Taylor, Roswell Rudd, William Breuker, Evan Parker, oltre ovviamente alla lunga militanza nella Italian Instabile Orchestra, senza tralasciare le seminali esperienze con Aktuala e Gruppo Contemporaneo) e di un magistero che non accusa nemmeno un'unghia di polvere ma resta vivido e pugnace, ci ha regalato nove segnali come rinnovate pietre angolari lungo la via verso un ascolto consapevole, carico di memoria, senza esserne gravato, capace di guardare agli orizzonti di domani e al tempo stesso di affondare saldamente le radici nelle terre profonde dove tutto cominciò.
Con il poeta turco Hikmet, «il miracolo del rinnovamento / mio cuore / è il non ripetersi del ripetersi».