Weller nello spazio

Il musicista inglese torna con un disco "sfacciatamente XXI secolo"

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Paul Weller
Saturns Pattern
Parlophone

Dopo una carriera lunga quattro decenni, prima a capo di Jam e Style Council, infine come solista, e con una reputazione pressoché inviolabile che l'ha reso icona condivisa nella scena musicale d'oltremanica, Paul Weller non avrebbe più niente da dimostrare. Quanto meno agli altri. Forse vuole sfidare se stesso, però, esplorando spazi sonori in precedenza poco o per nulla visitati. Così è da alcuni dischi in qua, incluso questo nuovo che il titolo proietta nello spazio. Non che l'autore abbia velleità fantascientifiche, beninteso: la costruzione musicale è tuttavia avventurosa, se non proprio avveniristica. Si fa ricorso infatti a tecnologie digitali, la voce viene filtrata insistentemente con effetti e il gorgoglio elettronico dei sintetizzatori influenza più di un episodio, cosicché l'insieme suona - parole sue - "sfacciatamente XXI secolo". Ciò avviene anche nei casi - ad esempio "I'm Where I Should Be" e "Going My Way" - in cui la scrittura si rifà agli standard del Britpop che lui medesimo ha contribuito a definire in passato, quando altrove sembra di percepire addirittura un'intenzione "progressiva" (nella conclusiva "These City Streets") o persino psichedelica (l'imprevedibile evoluzione di "Phoenix" e la successiva "In the Car..."). A tratti, poi, Weller calca la mano arrivando a lambire il punk ("Long Time") e l'hard rock (l'iniziale e non riuscitissima "White Sky"). Attitudine ammirevole per un uomo prossimo a compiere (il 25 maggio) cinquantasette anni, comunque si voglia valutare il risultato finale.

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