Jeff Buckley
You and I
Columbia
Annegato a trent'anni nelle acque del Mississippi il 29 maggio 1997, Jeff Buckley ha conseguito nel tempo status d’immortalità mercantile, come sovente accade agli artisti scomparsi in giovane età. In vita aveva realizzato un solo album, Grace, cui è seguita una pletora di pubblicazioni postume: dal dignitoso Sketches for My Sweetheart the Drunk (1998) al superfluo Songs to No One (2002), senza dimenticare antologie e assortite registrazioni dal vivo.
Alla lista si aggiunge adesso You and I, che documenta le sedute in studio da lui affrontate subito dopo aver firmato il contratto con Columbia, ramificazione della multinazionale Sony. Stiamo parlando del febbraio 1993, quando cioè bazzicava ancora i localini dell’East Village newyorkese proponendo un repertorio costituito in larga misura di cover. Ed è appunto questa la principale materia prima da cui deriva il disco, che prende titolo da un episodio già presente in Sketches…, esposto qui in forma di bozzetto approssimativo come "Dreams of You and I" (di quello si tratta: brandelli di musica strappati ai ricordi vaghi di un sogno, spiega egli stesso chiacchierando all’inizio e in mezzo al brano). Unica altra composizione autografa è "Grace", immortalata anch’essa allo stadio di semplice provino.
Premessa l’aura di provvisorietà che inscrive l’intero contenuto, l’attenzione si può spostare sui dettagli. Buckley era interprete notevole – con la sua tipica voce emotivamente intensa e incline al falsetto – di partiture altrui: esemplare – si ricorderà – il modo in cui fece rivivere "Hallelujah" di Leonard Cohen, a tal punto da rendere la propria versione più riconoscibile dell’originale. Nell’occasione, lo ascoltiamo cimentarsi con autori di varia specie, a volte a suo agio per spontanee affinità elettive ("I Know It’s Over" e "The Boy with the Thorn in His Side" degli Smiths) e a volte meno (nel funk targato Sly Stone di "Everyday People" o sull’impervio canone Robert Plant in "Night Flight" dei Led Zeppelin), dunque oscillante fra alti ("Calling You" di Bob Telson nella chiave da Oscar di Jevetta Steel, sinonimo di Bagdad Café) e bassi (convince relativamente la revisione languida e crepuscolare del classico "Just Like a Woman" di Dylan). Considerato infine che tre delle dieci canzoni incluse – "Calling You", "Just Like a Woman" e "Night Flight" – erano affiorate in precedenza, ancorché con sembianze differenti, nell’edizione "espansa" di Live at Sin-è, s’intuisce il peso specifico piuttosto esiguo dell’opera. La speranza è che ora il fondo del barile sia definitivamente prosciugato e possa perciò terminare la mesta spoliazione del suo lascito involontario.