È da poco nelle librerie Storie di jazz (Arcana Edizioni, 330pp, 22€) di Enrico Bettinello, firma che i lettori del "giornale della musica" conoscono bene, e responsabile della sezione jazz della nostra testata.
Come suggerisce il titolo, si tratta di una raccolta di ritratti di decine (complessivamente più di cinquanta) di jazzisti più o meno celebri, in un arco di tempo che attraversa il Novecento dai tempi di King Oliver agli anni più recenti.
Guida "sentimentale", recita il sottotitolo, in un certo senso asistematica e componibile a piacere del lettore, nata come rubrica mensile per la rivista "BlowUp", ma capace anche su libro di incuriosire e invogliare al jazz ascoltatori alle prime armi e appassionati già più attrezzati.
Abbiamo pensato di chiedere a Claudio Sessa, altra firma del GdM e autore di un recente libro, Improvviso singolare (ne abbiamo parlato qui) che, in quanto vera e propria storia del jazz, è in un certo senso "complementare" - pur nelle evidenti differenze anche stilistiche - a quello di Bettinello, di stimolare al "collega" alcune riflessioni sullo scrivere di jazz oggi.
SESSA: «Nel tuo libro si prova a raccontare il jazz al giorno d'oggi. Sarebbe bello provare a riflettere su ciascuno dei termini, apparentemente così innocui, presenti in questa frase: raccontare, jazz e giorno d'oggi. Partiamo dall'ultimo: è differente raccontare oggi il jazz, rispetto al passato»?
BETTINELLO: «La domanda che poni è molto interessante e anche insidiosa, perché apre molte finestre a ulteriori riflessioni. Ho la sensazione che raccontare una musica sia una pratica che dipende sempre dalle condizioni culturali in cui avviene e che quindi sottopone continuamente anche l'oggetto della sua analisi a nuovi stimoli. Chiaramente poi, man mano che si procede con i decenni, studi, testi e tendenze si stratificano e vanno a costituire un corpus che mi sembra in alcuni casi giunto a quella che con un ossimoro potremmo chiamare una sua "maturità provvisoria", per quanto riguarda alcune esperienze ampiamente storicizzate».
SESSA: «Oggi: da quando comincia questo "oggi"?»
BETTINELLO: «Definire quando incominci questo oggi è esercizio arduo e forse non essenziale. Certamente i potenziali nuovi ascoltatori di oggi vivono in un sistema culturale e tecnologico che differisce in modo radicale da quello cui facevano riferimento anche solo i loro fratelli e sorelle maggiori e questo non è senza conseguenze.
Più volte ho sentito e sento il desiderio di portare la musica che mi interessa fuori da quelle che sono le mie abitudini di fruizione per provare a raccontarle a chi mi legge. Questo sia perché mi capita spesso di scrivere per lettori che non sono necessariamente dei connoisseurs del jazz (come accade per le storie del mio libro, che sono nate per una rivista come "BlowUp" i cui lettori spesso non sono - o non sono solo - degli appassionati di jazz), sia perché credo che per essere dei buoni comunicatori si debba anche tenere conto che chi si accosta a questa musica lo fa il più delle volte come un esperto di jazz magari si accosta a altre attività bellissime, che so il cinema, il teatro, il vino, l'arte, la letteratura... apprezzandone in modo sincero e profondo alcuni aspetti, alcuni autori e alcune opere pur ignorando magari (e non avendo alcun interesse a approfondire troppo) gran parte del contesto storico e culturale in cui sono inseriti.
Chi scrive di jazz - ma di musica in genere direi - oggi si trova così da un lato di fronte alla sfida quasi titanica di dover scegliere (tra l'altro in un sistema che mette facilmente a disposizione una quantità di opere e informazioni come mai è successo prima nella storia) cosa "fare passare" e cosa, spesso a malincuore, dovere mettere in secondo piano, dall'altro credo che debba tenere come obiettivo principale quello di trasmettere a chi legge gli strumenti per accostarsi alla musica in un modo che sia dinamico, curioso, indipendente, "evoluto/emancipato", per usare un bel termine coniato da Jacques Rancière in relazione allo spettatore».
SESSA: «Jazz: è differente raccontare questa rispetto ad altre musiche? Forse la risposta dipende dal tipo di pubblico al quale ci si vuole rivolgere, o la cosa è indifferente?»
BETTINELLO: «Sì, sotto molti aspetti di tipo strettamente estetico/storico, probabilmente no dal punto di vista generale. Come noti giustamente, il tipo di pubblico cui ci si rivolge chiaramente influisce: io ho avuto e ho la fortuna di scrivere su testate anche molto diverse tra loro e devo dire che è un ottimo esercizio».
SESSA: «Raccontare: è giusto usare la forma-racconto?»
BETTINELLO: «La forma racconto porta sempre con sé un forte potenziale di coinvolgimento, inutile negarlo. Chi si occupa di jazz, non so se sei d'accordo, è sempre un po' combattuto su questo, perché da un lato la componente narrativa, aneddotica, anche mitopoietica e identitaria se vuoi, dei racconti sul jazz è molto affascinante, dall'altro è spesso abusata (anche dagli stessi artisti) ed è portatrice più o meno "sana" di luoghi comuni e fraintendimenti.
Sul fronte opposto è chiaro che usare il linguaggio meno immediato della musicologia in contesti di divulgazione è pratica che porta con sé una sostanziale difficoltà di approccio da parte del lettore che non possegga già gli strumenti adatti. Credo si possa però mantenere un livello alto di qualità musicologica e provare a usare parole e discorsi di fascino comunicativo, in Italia penso ad esempio a te o a Stefano Zenni che nelle lezioni o negli incontri con il pubblico avete questa qualità.
La critica postmoderna (ma in realtà pienamente modernista) alla retorica del raccontare mi pare superata nei fatti da un lato dalla constatazione che la narrazione è sempre al centro delle pratiche letterarie e critiche, dall'altro dall'evidenza che l'ascoltatore oggi ha sempre meno "bisogno" di una mediazione quale la conoscevamo per ottenere informazioni sulla musica - che spesso può ascoltare comodamente con un click - ma più di mappe e percorsi che gli consentano di costruirsi un proprio universo sonoro in cui identificarsi singolarmente e/o collettivamente».
SESSA: «Hai ragione a notare che ogni narrazione presuppone un ordine privilegiato, un senso dato da chi racconta, a causa del quale possono nascere zone d'ombra, luoghi comuni, fraintendimenti. Io credo che la fatica del narratore, e anche il valore della sua testimonianza, stia soprattutto nella sincerità con cui affronta, magari per l'ennesima volta, gli argomenti che vuole trattare. In questo senso io non credo nella storia "definitiva" o quella che tu chiami "maturità provvisoria"; la storia (e le singole storie, i racconti) nasce ogni volta che nel presente ci si pongono delle domande, con le quali si mostra il bisogno di indagare di nuovo il passato. E forse il bello del jazz è proprio la sua fluidità, la sua natura multiforme (quel che io chiamo la sua natura paradossale), che permette di rimescolare ogni volta molti fatti che parevano definitivamente acclarati».
BETTINELLO: «Penso di essere più d'accordo con te di quanto tu non sospetti. Chiaramente la struttura e l'origine del mio libro (poche pagine per ciascun jazzista, sia esso un Charlie Christian che muore giovanissimo o un Duke Ellington) mi hanno costretto a volte a non poter dare pienamente conto dei tanti flussi e piani di osservazione cui accenni e che invece suggerisci bene nel tuo Improvviso singolare, ma spero che chi leggerà Storie di jazz si senta stuzzicato non solo a ascoltare i tantissimi suggerimenti discografici che ho disseminato tra le pagine, ma anche proprio a indagare quegli aspetti che ne sono rimasti fuori».