Si dice che nel 1856 il sessantaquattrenne Gioachino Rossini, particolarmente provato nel fisico e nello spirito, vi abbia soggiornato per qualche settimana. E si dice che in quel piccolo villaggio nella parte settentrionale della Foresta Nera, le sue acque termali abbiano fatto miracoli, tanto da ridargli energie e ispirazione per rimettersi al lavoro dopo lungo tempo sui suoi Peccati di vecchiaia. A Bad Wildbad non se ne sono dimenticati e ricordano quell’ospite illustre con un festival, che proprio nell’anno in cui si ricordano i 150 anni dalla nascita di Rossini festeggia i suoi primi trent’anni. Un festival in terra tedesca ma con un’anima italiana: Antonino Fogliani, che dal 2011 ne è direttore musicale.
Messinese di nascita e bolognese di adozione, Fogliani rappresenta una schiatta di direttori magari poco presenti nelle riviste patinate ma portatori di una saggezza antica, che ne fa oggi uno degli interpreti internazionalmente più stimati della grande tradizione italiana del belcanto e di quello rossiniano in particolare. Proprio nel segno di Rossini si è aperta la sua carriera, con il debutto nel 2001 al Rossini Opera Festival nel Viaggio a Reims. Da autentico ambasciatore internazionale del belcanto, lo raggiungiamo nella sua residenza bolognese mentre è in procinto di partire per Oslo per terminare le prove della nuova Norma firmata dalla giovane regista norvegese Sigrid Strøm Reibo che debutta il prossimo 20 gennaio (e che approderà all’Oper Frankfurt il prossimo 10 giugno con la direzione dello stesso Fogliani), facendo spola con Verona dove si riprende al Filarmonico l’Otello di Verdi che Francesco Micheli ha firmato per il Teatro La Fenice qualche stagione fa. Con lui abbiamo parlato della sua passione rossiniana e di come si prepara a festeggiare l’importante ricorrenza del 2018 nel suo festival il prossimo luglio in questa intervista esclusiva per i lettori del gdm.
Il tuo profilo di direttore esperto di belcanto è indiscusso a livello internazionale. Non ti senti sminuito nel tuo ruolo di direttore in un repertorio, nel quale le voci hanno un peso così preponderante?
«Amo profondamente questo repertorio. Con più di venti opere rossiniane debuttate e tanto Donizetti, Bellini, Mercadante ho indubbiamente più strumenti per rileggere questo patrimonio fondamentale della nostra cultura. Questo è un punto fondamentale nel mio lavoro: sento un’orgogliosa appartenenza alla tradizione del repertorio belcantistico e sono ben cosciente del ruolo fondamentale e per nulla subordinato che un concertatore possiede in questo specifico repertorio. Il direttore d’orchestra deve inoltre esigere dai propri cantanti e dai propri musicisti non solo una coerenza stilistica ma ancor più un’urgenza narrativa e drammaturgica chiara ed incisiva. Una buona interpretazione delle opere del belcanto esige che un direttore accompagni non tanto i cantanti quanto l’azione. La familiarità con questo repertorio mi facilita inoltre un approccio più lucido verso compositori apparentemente diversi per epoca e stile. Per esempio, ho diretto recentemente Ariadne auf Naxos con le Nederlandse Reisopera, che ha vinto il premio come miglior allestimento in Olanda. Chi meglio di Strauss è stato in grado ad assimilare e reinventare diversi stili che convivono armoniosamente in quest’opera?».
«Sento un’orgogliosa appartenenza alla tradizione del repertorio belcantistico. La mia scuola musicale mi ha insegnato a sentirmi maestro concertatore più che direttore».
«D’altronde la mia formazione musicale si è sviluppata con lo studio della composizione, che ho cominciato a 13 anni. Sono stato fortunato ad avere un maestro con Francesco Carluccio a Bologna e ad aver avuto la possibilità di studiare alla Chigiana con Franco Donatoni ed Ennio Morricone. Questa mia formazione mi permette di avere una visione più lucida di una partitura. La mia scuola musicale mi ha insegnato a sentirmi maestro concertatore più che direttore: tengo molto alle prove musicali e a ricercare un’unità stilistica in quello che dirigo».
È sempre possibile raggiungere quella coerenza stilistica con ritmi di lavoro quasi industriali che i teatri soprattutto del Nord Europa, dove tu dirigi molto di frequente, tendono a seguire?
«Non sempre, soprattutto con lo stile di lavoro intenso che caratterizza la produzione musicale in Germania, dove con il sistema di repertorio hai spesso poche prove musicali o addirittura vedi l’orchestra il giorno stesso della recita. Sono estremi che non amo ma che accetto, perché comunque riesco a ottenere buoni risultati. Credo sia proprio in questi momenti che debba venir fuori la musicalità e la volontà di un artista. Io amo costruire con il cantante ma si può ugualmente “creare” insieme qualcosa di speciale unendo le proprie energie durante la recita. È un percorso creativo molto eccitante. Queste situazioni mi creano uno stimolo artistico molto intenso. Ma il tempo per fare musica lo si trova con la buona volontà. Per quanto mi riguarda, si costruisce qualcosa di musicalmente “vero” partendo dalla “purezza” della partitura e con un approccio di devoto amore verso il lavoro del compositore».
A proposito di canto e di belcanto, non trovi che ci sia un equivoco di fondo nel modo di affrontare il repertorio belcantista in Germania? La mia impressione è che spesso si cerchi di compensare con un eccesso di teatro i vuoti drammaturgici di quello che resta un teatro di voci. Sei d’accordo?
«Credo che sia un problema diffuso che non riguarda solo la Germania, cioè quello di non essere capaci a collocare nel giusto alveo drammatico un’opera di belcanto volendola rendere sempre troppo realista. Bisogna avere l’intelligenza di trovare la strada giusta per raccontare un’opera. Per me è anche sbagliato l’approccio contrario, cioè di chi confonde il teatro di voci del belcanto con un teatro di arie belle e orecchiabili. Non credo che un Donizetti che scrive L’elisir d’amore pensi solo alla voce. Credo piuttosto che Donizetti pensasse al teatro: gli scambi di lettere fra compositore e librettista rivelano come il lavoro fosse teso a risolvere problemi drammaturgici. Il problema era quello di superare le convenzioni che la “solita forma” del melodramma imponeva. La mancanza di un grande concertato in un’opera come Norma ne è un esempio lampante: Bellini e Romani sapevano di andare contro un sentire condiviso da parte del pubblico ma hanno anteposto la loro volontà creativa e innovativa al gusto dell’epoca. Quello che ha nuociuto semmai è stato un eccesso di personalismo nella lirica da parte dei cantanti (troppe volte ho sentito dire “ma questo lo fa Pavarotti” oppure “questo lo fa la Freni”). Non c’è una verità chiara. In realtà l’opera è un insieme di personalità che vanno integrate. I cantanti non devono perdere la loro identità, però devono essere guidati per cercare di trovare la necessaria unità stilistica. Poi, se vogliamo, in Germania c’è anche una questione di numeri: c’è così tanta produzione fra nuovi spettacoli e riprese che, non potendo sempre avere una Netrebko o un Kaufmann, spesso si fanno debuttare cantanti che avrebbero ancora bisogno di maturare. E da non sottovalutare c’è anche l’aspetto legato alle prove musicali: quando le ottieni in teatro, sembra spesso che ti facciano un favore. Ma la colpa, più che dei teatri è dei miei colleghi, anche illustri, che talvolta non hanno voglia di battersi per provare di più».
Un'altra caratteristica delle produzioni del Nord Europa è il ruolo dominante della regia. Com’è il tuo rapporto con i registi?
«In realtà io amo molto il teatro. Come il direttore lavora per trovare un’unità stilistica sul piano musicale, così il regista deve trovare la stessa unità stilistica sul piano della recitazione. A volte però vedi arrivare registi impreparati che non conoscono nemmeno spartito. A Oslo in una produzione di Così fan tutte, che non facevo io, ne ho sentito uno dire: “Non possiamo tagliare Come scoglio? Non aggiunge niente alla storia …”. E poi i registi sono i geni e noi direttori i conservatori! La verità è che certa gente in teatro non dovrebbe proprio mettere piede».
È quindi inevitabile lo scontro fra direttore e regista in quanto portatori di due valori diversi e forse inconciliabili?
«Non è detto che ci si debba scontrare sempre. Si può anche stabilire un dialogo costruttivo, almeno nelle nuove produzioni quando si lavora insieme. Recentemente a Olso ho fatto una Cenerentola molto interessante con la regia di Stefan Herheim, uomo intelligente oltre a essere lui stesso musicista. È bello quando si trova un “collega”! Con lui ho fatto fra le produzioni più interessanti della mia carriera, come La bohème sempre a Oslo. Nelle riprese, quando quel dialogo manca, spesso non puoi fare molto tranne chiederti: “Perché?”».
«A volte però vedi arrivare registi impreparati che non conoscono nemmeno spartito. In una produzione di Così fan tutte ne ho sentito uno dire: “Non possiamo tagliare Come scoglio? Non aggiunge niente alla storia …”».
«A volte però capita anche di lavorare in produzioni che hai molto amato, come lo scorso settembre a Düsseldorf, dove da questa stagione sono direttore ospite principale. In quel caso si riprendeva La Cenerentola nell’allestimento storico di Jean-Pierre Ponnelle: da ragazzino, mi innamorai della von Stade guardando il video! Ovviamente non tutto deve essere Ponnelle o Zeffirelli, però certe esagerazioni, certe cose che vanno contro la musica faccio fatica a accettarle. Con questo non voglio dire che bisogna seguire la musica in maniera pedissequa ma piuttosto lo spirito che la anima. Spesso quello spirito non si ritrova sulla scena».
Torno al punto di partenza: se la regia tende ad avere un peso così preponderante, non dipende forse dal fatto che la musica sia considerata insufficiente per una drammaturgia per così dire organica?
«Magari è anche vero che mancano direttori d’orchestra con personalità che pretendano il rispetto più che della musica del lavoro di tutti quelli che partecipano a una produzione d’opera. Si dovrebbe sempre cercare di creare le condizioni perché direttore e regista sviluppino davvero insieme un progetto. Perché non è che un direttore è lì per dirigere una base musicale, la colonna sonora di quello che avviene sulla scena. E quando le emozioni che la musica ispira sono contrarie a quello che si vede in scena allora è un problema. Sarebbe giusto rispettare entrambe le dimensioni».
Trovi che nel pubblico ci sia altrettanta attenzione anche alla dimensione musicale? Personalmente ho l’impressione che molti anni di eccessi registici abbiano in qualche modo sbilanciato il rapporto fra musica e teatro.
«È vero che spesso nei teatri del Nord Europa siano molto più attenti alla parte registica. E in fondo la parte visiva è quella che viene più compresa dagli spettatori. Andare a discutere su una scelta musicale è più complicato. Quando sento tante critiche sul direttore da parte di gente non precisamente competente mi domando su quale base lo si possa davvero fare. Spesso c’è il problema che molti vanno a teatro avendo un’idea di quella che è la sua Tosca o la sua Lucia preferita e quindi non sempre c’è l’atteggiamento di attenzione all’ascolto sull’interprete. Oggi tutto ha un po’ perso valore. C’è una certa superficialità diffusa, compreso nel nostro mondo».
Veniamo a Bad Wildbad. Ci lavori da molti anni e dal 2011 sei anche il direttore musicale del festival Rossini in Wildbad. Come è lavorare in questa piccola ridotta del canto rossiniano in terra tedesca?
«Ecco, la superficialità è proprio quello che cerchiamo di evitare a Bad Wildbad, ad esempio stando molto attenti all’uso delle edizioni critiche e più in generale alla dimensione musicale. Molte cose si potrebbero ovviamente migliorare ma non possiamo contare su un’organizzazione fortissima come quella di Pesaro dove esiste una struttura che lavora 12 mesi l’anno, anche se poi la produzione vera e propria dura poco più di due mesi. La nostra struttura invece si indebolisce durante i periodi di non festival e questo talvolta rallenta il nostro lavoro, perché quando ci dovremmo dedicare alla produzione non tutto è pronto».
Dal punto delle realizzazioni musicali sei soddifatto di quello che riuscite a fare a Bad Wildbad?
«Sono molto soddisfatto. Abbiamo sviluppato un ottimo rapporto con un’orchestra di Brno, i Virtuosi Brunenses, che è composta da bravi musicisti in gran parte attivi nell’orchestra dell’Opera di Brno. Non nascondo che, come è successo nel passato, mi piacerebbe coinvolgere qualche orchestra tedesca. Non possiamo contare su grandi contributi né abbiamo appoggi politici che ci permettano di impiegare anche altre orchestre al momento. Forse avendo delle strutture organizzative più solide, come ha fatto Pesaro per tanti anni con l’Orchestra del Teatro Comunale di Bologna e lo scorso anno con l’Orchestra nazionale della RAI, il lavoro sarebbe sicuramente più facile e ci permetterebbe di avere una visibilità maggiore nel territorio».
Parliamo di voci, uno dei punti di forza di Rossini in Wildbad.
«La linea che perseguiamo con grande passione è quella di mettere insieme specialisti importanti di canto rossiniano con giovani interpreti, ai quasi riserviamo un’attenzione speciale. Questi ultimi li scegliamo tramite audizioni o li scoviamo nel corso della stagione lavorando in giro per il mondo. Per esempio, la Berenice nell’Occasione fa il ladro della scorsa edizione, Vera Talerko, era una giovane cantante nell’Opera studio a Oslo e interpretava Lola nella Cavalleria rusticana, ruolo lontano dal belcanto, che non aveva mai affrontato così come non aveva mai affrontato ruoli rossiniani. Ho intuito in lei delle buone qualità e le ho proposto quel debutto. Stessa storia per la giovane Elisa Balbo, l’Anna Erisso del Maometto II, che fino alla scorsa estate aveva fatto Bohème e Leonora: anche per lei ho subito pensato fosse interessante coltivare il canto rossinano prima di tornare al suo repertorio. Credo abbia le qualità per affrontare un vasto repertorio».
A Bad Wildbad sono anche passate alcune stelle del canto rossiniano e con alcune mantenete rapporti duraturi: come ci riuscite?
«È vero, a Bad Wildbad coltiviamo anche un rapporto particolare con artisti del calibro di Lorenzo Regazzo, Bruno Praticò, Bruno de Simone o Marianna Pizzolato. Sono tutti legati a questo posto per affetto e non certo per un ritorno economico soddisfacente. Offriamo loro progetti molto interessanti e questo stimola in loro un grande interesse. E poi, con un certo orgoglio, sottolineo che a Bad Wildbad si sono fatti conoscere cantanti oggi riconosciuti a livello internazionale come Olga Peretyatko, Michael Spyres ma anche Joyce DiDonato, che qui ha fatto Cenerentola con il Maestro Zedda, grandissimo direttore rossiniano sempre molto vicino al nostro festival. Aggiungo che nella scorsa edizione abbiamo anche avuto Gianluigi Gelmetti che ha fatto Eduardo e Cristina: un vero regalo! Ha creduto in quest’opera, rispetto alla quale la maggior parte della gente storce il naso …».
… e avete anche rubato il primato a Pesaro, che non ha mai presentato questo titolo rossiniano!
«Eppure è un’opera che funziona! È un’opera di autoimprestiti, ma con Rossini gli autoimprestiti funzionano sempre e questa tecnica compositiva è in fondo una caratteristica costante nella musica rossiniana. Tale tecnica funziona perché la sua musica è concepita per l’“orizzontalità” del rapporto fra musica e dramma. Chiaramente ha anche delle “verticalità”, che non sono quelle di Bellini, di Donizetti e ovviamente di Verdi. La settima diminuita che annuncia la tragedia non serve a Rossini, il quale si appoggia con geniale intuizione all’atmosfera morale dell’opera, all’oggettività del dramma più che alla soggettività del personaggio».
Che è come dire che la musica di Rossini sia “asemantica”, come qualcuno l’ha definita. Sei d’accordo?
«Sì, ma senza attribuire un’accezione negativa a quest’idea. Se Rossini sopravvive oggi è perché il suo linguaggio è molto più moderno di altri autori. Prendiamo un film come Arancia meccanica: la musica di Rossini accompagna i momenti più violenti del film. Quel contrasto funziona perfettamente ed è modernissimo. Siamo noi esseri umani predisposti a sentire nella medesima sinfonia rossiniana il preludio ad una commedia brillante come Barbiere o l’attesa di una tragedia come Elisabetta regina d’Inghilterra. Questo è un miracolo che slega la musica dal messaggio univoco che molti pensano debba avere».
Ma in fondo la musica della sinfonia della Gazza ladra, così come l’opera, non è affatto leggera o spensierata.
«Infatti. E vedi poi le polemiche che hanno accompagnato l’opera alla Scala nella scorsa stagione: la gente non sapeva nemmeno che si trattasse di un’opera semiseria. Forse per questo Rossini c’è bisogno di lavorare ancora un pochino …».
A Bad Wildbad hai già praticamente fatto tutto Rossini. Che altro ti resta da fare?
«Magari! Quando ho messo piede a Bad Wildbad per la prima volta avevo 28 anni e ora ne ho 41. È vero che ho fatto tante cose, ma ora le vorrei fare in maniera diversa. C’è una maturità, anche caratteriale, di esperienze di vita, che ti fa vedere le cose da un altro punto di vista. Mi dispiace aver fatto Guglielmo Tell troppo presto, anche se tutto sommato non è venuto male. Avrò la fortuna di affrontarlo a Monaco di Baviera fra qualche anno e sarò felice di arrivarci con maggiore maturità. Non credo che occorra necessariamente avere cinquant'anni per dirigere la Nona di Beethoven: si può anche dirigere a 22 anni, ma nell’attesa di arrivare a quei cinquanta, a quei settanta a quegli ottanta per poter cogliere tutta la sua profondità. Credo che anche i giovanissimi debbano avere la possibilità di confrontarsi con i capolavori per alimentare dentro di sé la responsabilità di crescere e maturare con consapevolezza».
Un’opera che ti manca o che vorresti rifare?
«Sono molte le opere di Rossini che ancora non ho diretto. Soprattutto vorrei fare Tancredi, che abbiamo in programma a Wildbad nel 2019. In quest'opera c'è una parte di me. Lo stesso che provo con le opere di Bellini. Ho un bellissimo ricordo di quando ero assistente di Gelmetti nel suo Tancredi a Pesaro nel 1999 e specialmente dell’introduzione all’arrivo del protagonista Tancredi: il Maestro Gelmetti aveva trovato il colore del nostro mare di Sicilia. Si respirava quella brezza di mare che attraversi in quella mezz'ora di nave fra le due sponde calabrese e siciliana. Non sono mai riuscito a sentire un’interpretazione più vera ed emozionante di quella. Ecco, quella “verità” vorrei ritrovarla nel mio Tancredi».
Ecco la sicilianità del messinese Fogliani: quanta ne hai infuso nel tuo festival? Mi viene in mente una Sposa di Messina di qualche anno fa.
«Ma quell’opera di Vaccaj non aveva proprio nulla di siciliano! La sicilianità l’abbiamo trovata piuttosto nel primo Bellini di Bianca e Gernando, che abbiamo presentato nel 2016, o magari anche nel Vespro siciliano di Lindpaintner dell’anno prima. Sono queste cose che mi attirano molto e che sento molto mie. Il mio sogno è fare anche Puritani qua, ma Bad Wildbad cerchiamo anche di proporre lavori minori e particolari, come abbiamo fatto con Il noce di Benevento e Il Conte di Marsico di Balducci, Ser Marcantonio di Pavesi, Tebaldo e Isolina di Morlacchi, Il convitato di pietra di Pacini e molte altre. Sono scelte che spesso riflettono anche un’esigenza discografica legata al nostro rapporto con la Naxos. Una delle produzioni che ricordo con più piacere è I briganti di Saverio Mercadante con Bruno Praticò, celebrato buffo ma per una volta impegnato in un ruolo drammatico, un ruolo che ha fatto benissimo. Solo i grandi attori comici riescono a vedere in maniera più lucida la tragedia della quotidianità. Penso a Totò diretto da Pasolini, solo per fare un esempio».
Torniamo all’integrale rossiniana: nel 2018 avrete l’occasione di colmare qualche lacuna?
«La prossima estate presenteremo per la prima volta a Bad Wildbad e in Germania Zelmira, l’ultima opera napoletana di Rossini, con la direzione di Gianluigi Gelmetti. Avremo anche il Moïse, un titolo al quale tenevo molto. Speravo di poterlo presentare nella nuova edizione critica della Bärenreiter, ma il direttore delle edizioni ci ha confermato che la partitura non sarà pronta prima di due anni e quindi stiamo lavorando a un’edizione provvisoria, nostra, basata sul materiale esistente. Ci sono diverse differenze, diverse fioriture, sia nell'orchestra che nel canto, che andrebbero controllate con più attenzione musicologica. Per questa ragione volevo aspettare la Bärenreiter, ma faremo del nostro meglio per avvicinarci il più possibile ad una lettura filologicamente accurata. E poi proseguiremo anche con la nostra serie delle opere buffe in un atto al Kurtheater con due titoli: L’equivoco stravagante e La cambiale di matrimonio, quest’ultima con la regia di Lorenzo Regazzo che due anni fa ha trionfato come protagonista della farsa L’occasione fa il ladro».
A Bad Wildbad manca un po' la produzione rossiniana non destinata alla scena.
«Quest’anno apriremo il festival il prossimo 12 luglio con un concerto all’aperto nella grande torre del Baumwipfelpfads che comprende i Trois choeurs religieux ed estratti delle musiche da scena dell’Edipo a Colono, cui seguirà qualche giorno dopo la Petite messe solemnelle, che manca da molti anni da Bad Wildbad. Abbiamo commissionato inoltre a Francesco Carluccio un pezzo che avrà lo stesso organico della Petite messe: si chiamerà Caïn e sarà una novità molto attesa. Avremo anche Le nozze di Teti e di Peleo per celebrare il trentennale del festival e un concerto con la violoncellista Raphaëla Gromes, oltre agli abituali recital con i giovani dell’Accademia rossiniana. Non faccio fatica ad ammettere però che tradizionalmente non c’è stata molta attenzione alla dimensione non teatrale della produzione rossiniana. È una critica che accetto e certamente dovremmo farne di più. Cercheremo di coinvolgere maggiormente anche i giovani della nostra Accademia, cercando di farli maturare attraverso le master di Raúl Giménez e Lorenzo Regazzo. Credo che la proposta del Festival quest’anno sia molto varia e accattivante per il pubblico».
Bad Wildbad è un caso unico in Germania: hai una spiegazione perché questo paese è così riluttante alla musica rossiniana?
«Le voci. Non ci sono le voci, anche se oggi la situazione sta cambiando. Lo diceva anche il compianto Alberto Zedda».
Non si tratta anche di una difficoltà a accettare o comprendere un modo di fare teatro lontano dall’organicità della drammaturgia wagneriana che ha segnato così profondamente gli sviluppi del teatro musicale in questo mondo? Mi viene in mente il famoso racconto della visita di Wagner a Rossini di Edmond Michotte, nel quale il primo deplora “le arie di bravura o i duetti insipidi fabbricati secondo lo stesso modello e quant’altri fuori programma che interrompono senza ragione l’azione scenica”.
«Forse, ma anche in Germania, quando lo si fa, Rossini piace molto. E comunque l’interesse c’è. Per esempio, l’Opera di Francoforte mi ha offerto di dirigere Otello nel 2019, per il quale è prevista la ripresa della produzione che Damiano Michieletto ha realizzato per il Theater an der Wien nel 2016. Il problema è piuttosto che nei teatri tedeschi con le loro compagnie fisse, spesso i cantanti non hanno la capacità tecnica di affrontare un Pirro o un’Andromaca».
«Rossini anche nel comico non è mai trash, non è mai sporcaccione perché vira sull'assurdo. E in questo è di una modernità sconvolgente».
«Ho accettato di dirigere a Düsseldorf la Cenerentola perché ho trovato un bel parco voci, con cantanti che hanno una bella voglia di lavorare, di perfezionarsi. E anche la Lucia che ho fatto in quel teatro è riuscita bene. Purtroppo non è sempre così. Ovviamente è più facile trovare una voce per Trovatore, per Bohème, per Tosca, che per questo repertorio. E qui torno al discorso sulla superficialità: Puccini ti regala facilmente tante emozioni, ti prende allo stomaco, mentre Rossini va capito, va storicizzato. Nelle sue opere difficilmente i personaggi si dicono “ti amo”. L’emozione più grande è il sentimento del pudore di cui la musica di Rossini è piena. Anche nel comico non è mai trash, non è mai sporcaccione perché vira sull'assurdo. E in questo è di una modernità sconvolgente».
Una delle cose di cui vai più orgoglioso a Bad Wildbad?
«Una delle più grandi soddisfazioni è dare una possibilità ai nostri giovani cantanti. Qui non c'è lo stress che c’è a Pesaro, l’esposizione mediatica, le aspettative. Qui trovano un ambiente protetto, anche se anche a Bad Wildbad comincia a venire il New York Times e vengono anche diversi agenti alla ricerca dei talenti di domani. Anche il pubblico qui è meno severo e più tollerante (anche se pure qui, nel loro piccolo, qualche volta si incazzano). Forse l’ambiente bucolico di quella cittadina mette di buon umore e la stampa è raramente cattiva con noi. Un giovane cantante ha anche bisogno di questa tolleranza. È vero che la critica ti fotografa in quel momento lì, proprio quando hai fatto qualcosa di sbagliato, o non sei piaciuto. Qualche volta vedo che molti prendono troppo sul serio quello che scrive la critica e questo ti evita una crescita, un sereno percorso di maturazione».
Anche la critica sbaglia qualche volta...
«Certo! Ho letto di recente una critica della prima assoluta della Tosca a Roma che diceva grossomodo “il compositore ha fatto un buon lavoro, ma certo non è al livello degli altri e certamente non passerà alla storia”. Bisogna avere pazienza su tutto. A tutti piace il pomodoro subito maturo, ma per maturare ci vuole il suo tempo. Ci vuole pazienza con noi stessi. C'è un percorso di crescita in ognuno di noi».
La tua attività si svolge molto all’estero ma non ti mancano le occasioni anche importanti in Italia: come vedi la situazione della musica nel nostro paese?
«Non vedo una situazione disperata. Vedo, al contrario, una qualità nelle nostre masse artistiche che non è facile trovare altrove. A Verona ho diretto una Tosca al Filarmonico e poi all'Arena l’estate scorsa: quegli orchestrali l’avevano fatta mille volte e sapevano tutto di quell’opera (ne sapevano anche più di me!) e soprattutto avevano la cultura del suono».
«Vedo in Italia una qualità nelle masse artistiche che non è facile trovare altrove. Semmai i problemi sono nella gestione delle istituzioni musicali dove in qualche caso la competenza latita».
«E vogliamo parlare dei tecnici che sanno esattamente come curare il minimo dettaglio e lo fanno con grande amore? In questa situazione, l’opera non può morire. Semmai i problemi sono nella gestione delle istituzioni musicali dove in qualche caso la competenza latita. La musica è un patrimonio per il nostro paese. Perché buttar via tutto questo? Non vedo nero perché so che siamo italiani e sapremo rialzarci sicuramente.»
All’estero invece?
«Soprattutto in Germania e Norvegia, come direttore devo lottare perché spesso si pensa che la musica si possa fare velocemente. D’altra parte, come artisti, si è molto tutelati, molto considerati. E non parlo solo del fatto che ti pagano il giorno dopo, che comunque è un segno di rispetto per la tua professione. Non pagare il lavoro di qualcuno è una mancanza di rispetto».
Un progetto importante al quale vorresti dedicarti?
«Gelmetti, il mio maestro, ha dedicato molto tempo nell’insegnamento alla Chigiana per tramandare le sue esperienze alle giovani generazioni. Anche il Maestro Gatti, che ne ha raccolto il testimone, si sta dedicando molto ai giovani direttori e da anni il Maestro Renzetti tiene corsi di direzione a Pescara. Questi sono per me esempi bellissimi di grande levatura artistica. Questi grandi colleghi sentono l’esigenza di tramandare il proprio sapere. Io ho ancora tanto da imparare, ma insegnando direzione di orchestra sono riuscito a dare una direzione a molti allievi che oggi muovono i loro primi passi in questo mondo. Si dice che chi insegna impara due volte. Mi piacerebbe quindi continuare nell’insegnamento anche se i miei impegni in questo momento non me lo consentono. Credo però che sia un dovere di tutti i musicisti con talento e competenza dedicarsi all’insegnamento. È un appello a chi sa fare: cerchiamo di essere meno gelosi e di trasferire la nostra esperienza per evitare che l’Italia si ritrovi senza eredi. È bello essere ricordati per aver dato qualcosa».