Nella prefazione alla quinta edizione della sua Storia della fotografia (Torino, Einaudi 1984), Beaumont Newhall ci ricorda che la stessa fotografia «è nello stesso tempo una scienza e un’arte, e ciò che lega indissolubilmente i due aspetti è la sua straordinaria evoluzione da surrogato di un’abilità manuale a forma d’arte indipendente».
Sfogliando le eleganti pagine della recente pubblicazione nella quale Roberto Masotti ha raccolto una selezione dei suoi scatti dedicati ai protagonisti della musica jazz nel corso della sua carriera di “osservatore delle cose musicali” – Jazz Area. La mia storia con il jazz, Seipersei 2019, 160 pp., 40,00 € – mi sono tornate alla mente le parole di Newhall, quell’idea di fusione tra “mestiere” e “creatività” che oggi forse diamo per scontata ma che una lettura storica più consapevole può aiutarci a collocare nella giusta prospettiva.
In questa raffinata pubblicazione, curata da Stefano Vigni, i ritratti dei musicisti, le inquadrature delle formazioni, i profili dei luoghi immortalati dall’obiettivo di Masotti ritrovano una dimensione al tempo stesso vivificata e astratta nella stampa a colore argento su una carta densa e nera che, in un certo senso, solidifica le immagini proiettandole in una dimensione plasticamente iconica. Una sorta di rievocazione dagherrotipica che ha il vantaggio anche di mitigare le eventuali differenti sfumature tecniche che l’evoluzione della fotografia ha lasciato nel cammino che porta dalla pellicola ai pixel.
Si tratta di una sorta di taccuino, un diario di viaggio dove sono state annotate le immagini di un tragitto che viene ricostruito lungo quasi cinquant’anni di incontri, ascolti e, naturalmente, fugaci, irripetibili visioni rese immortali e custodite in queste pagine. Dalla prima foto che pone inizio al viaggio e che immortala la formazione Detroit Free Jazz, con Art Fletcher, Don Moye e Ron Miller al Conservatorio di Bologna nel 1968, alle mani in soggettiva di Lawrence Casserley (2016), lo sguardo di Masotti ci restituisce una sorta di personale pellegrinaggio nella musica jazz nel quale i protagonisti non vengono solo ripresi, ma “incontrati”, restituiti nei loro gesti espressivi, le cui immagini plasmano idealmente l’atto sonoro e musicale.
Ecco Keith Jarrett “a fuoco” tra le gambe del “gigante” Miles Davis al Conservatorio di Milano nel 1971, o un primo piano di Gato Barbieri intento quasi ad assaporare l’ancia del suo sax al Montreux Jazz Festival del 1973, o ancora la plastica fisicità di Mats Gustafsson (sax) e Ingebrigt Håker Flaten (contrabbasso), due dei tre componenti (con Paal Nilssen-Love) del trio The Thing presente a Novara Jazz nel 2012.
Ma i protagonisti di questa sorta di galleria della memoria visiva sono tantissimi, tra i quali possiamo ricordare Steve Lacy, Max Roach, Ornette Coleman, Sonny Rollins, Archie Shepp, Carla Bley, Sam Rivers, Cecil Taylor, Charles Mingus, gli italiani Stefano Bollani, Antonello Salis, Roberto Ottaviano, Gianluca Petrella, e tantissimi altri. Inutilmente didascalico anche solo tentare di fare un elenco esaustivo dei volti, degli sguardi, delle smorfie e delle espressioni “un po’ così” – sforzo, sorpresa, stupore, concentrazione, assenza, ispirazione, gioia… – catturate da Masotti attraverso uno sguardo capace non tanto di scattare una foto ma di intuire “il momento” con il movimento fisico di un lampo di luce che imprime la pellicola (un tempo) o congela una codifica digitale.
Tra le pagine, oltre all’eloquenza delle immagini, troviamo anche le annotazioni dello stesso Masotti, che ricorda, tra l’altro, la mostra del 1999 dalla quale questo volume ha ereditato il nome, oltre ad altri interessanti appunti firmati da Roberto Valentino e Stefano Zenni.
Sempre Newhall nel suo volume, parlando di Barbara Morgan e del suo rapporto con la danza, annota come nelle opere di questa fotografa «ogni forma ha un significato. […] grazie alla sua esperienza, Barbara Morgan riesce a prevedere ciò che l’obiettivo fisserà nella frazione di secondo nel quale sarà aperto. Vede la danza non come spettatore, non come esecutore, ma come fotografo». Ecco, Roberto Masotti vede la musica – e la musica jazz in questo caso – come fotografo, ed è forse il migliore complimento che si possa fare a un professionista che ha documentato parte della sua storia in un libro come questo.