Primavera di classici

Da Nat King Cole a Duke, passando per Buena Vista e Ornette, un'infilata di ristampe da riscoprire

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Ristampe, classici e inediti un po' come violette selvatiche in un campo pieno di sole, in questo primo scampolo di primavera.

Date la qualità della musica e l'aria frizzantina, facile farsi ammaliare da questi dischi, a partire da To Whom It May Concern (Poll Winners/Egea) di Nat King Cole, con l'Orchestra di Nelson Riddle.

Siamo nel 1958 e Cole sceglie di incidere un disco di canzoni d'amore (prevedibile) evitando però standard conosciuti e puntando su brani nuovi di autori poco conosciuti (assai meno prevedibile). Il mood è quello confidenziale e vellutato che ben gli conosciamo e i brani scorrono che è una meraviglia, con i loro archi sciropposi che fluiscono sotto la voce con naturalezza. Come bonus album la ristampa propone nello stesso cd anche Every Time I Feel The Spirit, costruito negli stessi mesi su un repertorio di spiritual, con la partecipazione del coro della First Church Of Deliverance. Curioso assai!



Se nel disco precedente Cole si può apprezzare più come cantante che come pianista (è un peccato, perché il suo pianismo è molto interessante), il contrario accade con The Great Ray Charles (Poll Winners/Egea), in cui troviamo Ray Charles solo al pianoforte e non alla voce.



Tutte le tracce di quella seduta del 1957 per l'Atlantic sono incluse nel cd, alcune in trio (con il grande Oscar Pettiford al contrabbasso) e le altre in un bel combo in cui troviamo anche "Fathead" Newman ai sassofoni. Jazz elegantissimo, senza tempo. Un terzetto di tracce bonus fanno apprezzare Charles all'organo con l'Orchestra di Quincy Jones, niente male!

Il più pianista dei pianisti (se mi passate l'iperbole) è stato certamente Art Tatum, di cui vengono ristampate alcune classiche tracce in solo registrate tra il 1954 e il 1955, sotto il titolo More Of The Greatest Piano Of Them All (Poll Winners/Egea).



Il serbatoio è quello delle decine di tracce registrate da Norman Granz, una summa dell'arte a 88 tasti di Tatum, sul finire della sua vita (morirà nel 1956). Ogni nota un'architettura, un ricamo, un mondo da riascoltare.

In questo quadretto di "signori" del jazz del tempo non poteva certo mancare Duke Ellington. È appena uscita la ristampa di Jazz Party (Poll Winners/Egea), disco zeppo di ospiti stellari (da Dizzy Gillespie a Jimmy Rushing) e di pezzi meraviglioso come la "Toot Suite" o la primissima incisione di "U.M.M.G." di Strayhorn.



Particolarmente sugli scudi l'aspetto ritmico/timbrico della musica del Duca, con l'aggiunta di nove percussionisti classici in due pezzi ("Malletoba Spank" e "Tymperturbably Blue"), ma tutto il disco gode di un eccellente equilibrio tra immediatezza e eleganza.

Se in quello stesso 1959 qualcuno avesse detto a Ornette Coleman che sarebbe diventato un "classico", probabilmente non ci avrebbe creduto né tantomeno lo avrebbe desiderato. Ma la storia ha anche la capacità di ammorbidire le contrapposizioni e non è incongruo oggi - ha compiuto da pochi giorni 85 anni - ritenere il sassofonista di Fort Worth un artista pienamente metabolizzato nei linguaggi del Novecento.



Tra i live più belli della sua carriera, certamente c'è Live in Paris, 1971 (Domino Records/Egea), in quartetto con Dewey Redman (sax tenore e musette), Charlie Haden (contrabbasso) e un sempre stellare Ed Blackwell alla batteria. Una musica che non posso definire meno che entusiasmante!

Sono stati invece da subito percepiti (e inventati) come "classico" gli adorabili vecchietti di Buena Vista Social Club. Correva l'anno 1996 e non c'era angolo del globo che non si facesse venire i lucciconi agli occhi con il vocione un po' rauco di Compay Segundo.



Esce oggi un bel disco di inediti, Lost And Found (World Circuit/Ird), dal vivo e in studio, alcuni dei quali provenienti proprio da quelle mitiche sedute di registrazione. Colorato e primaverile.

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