Passaggi a Nordest

La Bottega Baltazar nel nuovo disco, fra rugby di periferia e Rigoni Stern: l'intervista

Articolo
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Bottega Baltazar
Sulla testa dell’elefante
Azzurra Music

C’è "una patria a inventare" e la Bottega Baltazar non si tira indietro: offre un arcipelago di dieci canzoni e una piccola orchestra a geometria variabile in cui dialogano, con il quintetto base, altri sette musicisti. I testi registrano spaesamenti e nomadismi, sogni e attese, i paesaggi sonori delle tangenziali e dei boschi di larici e abeti. Attraversano un nordest di contrasti, di aggressività quotidiane e di violenze che ne hanno segnato la storia.

"Osteria all’Antico termine", fra Dolomiti in cui si incontrano Borges e Rigoni Stern, è già archivata fra le Canzoni contro la guerra, ma tutti i testi sono disponibili nel sito del gruppo.

La voce di Giorgio Gobbo sa esplorare registri narrativi e altezze diverse, incontrando attraverso i brani punti di vista diversi, da un gatto in dormiveglia a pellegrinaggi collettivi, sostenuto da arrangiamenti che ritagliano per ogni canzone un contesto sonoro specifico, volentieri inquieto, dando spazio di volta in volta al violoncello di Valentina Cacco, al theremin di Vincenzo Vasi, agli ottoni di Gabriele Mitelli e Dario Cavinato, alle chitarre di Gianluca Segato e Mirko Di Cataldo, alla voce di Laura Gentilin. Sulla testa dell’elefante è un disco che non annoia mai, sempre pronto a voltare pagina, ma anche che suggerisce di tornare sulla singola canzone, a slegarla dal contesto per coglierne gli intrecci strumentali, a loro modo unici per ogni brano, e il loro rapporto con i testi, indispensabili al lavoro di lenta sedimentazione che caratterizza la Bottega.

Il brano "radiofonico" c’è e funziona: quarta traccia, "Rugby di periferia", con il campo da gioco che fotografa vite sospese, incorniciate dal "rumore di fondo della tangenziale" e da un lavoro che non c’è. E allora, per una volta, l’invito si fa esplicito: "insieme si resiste, divisi cadiamo", lo stesso spirito che decostruisce lo slogan leghista "padrone a casa mia", la consapevolezza d’essere tutti "foresti" (stranieri), specie quando cerchiamo suoni e parole che tengano insieme il mondo, "come l’arxento": il cantar storie come il kintsugi giapponese, l’arte di saldare assieme i frammenti senza nascondere le cicatrici.



Abbiamo fatto qualche domanda alla Piccola Bottega Baltazar.

Con questo disco la Bottega Baltazar riconfigura i suoi timbri sonori: proviamo a fare il punto sugli attuali componenti del gruppo, chi ha suonato nel disco, chi partecipa ai concerti? La bottega sta diventando un'orchestra?
«Il gruppo è rimasto un quintetto, con il clarinettista e polistrumentista Riccardo Marogna che è subentrato a Marco Toffanin, che suonava la fisarmonica; questo avvicendamento ci ha spinto a esplorare soluzioni timbriche per noi inedite. Il cantante Giorgio Gobbo, oltre alle consuete chitarre acustiche, ha imbracciato in questo disco l’elettrica, il contrabbassista Antonio De Zanche il basso elettrico, Graziano Colella ha trovato dei percorsi batteristici che hanno un sapore rock-folk anni Settanta, come mai avevamo fatto prima. Infine Sergio Marchesini, pur senza abbandonare la fisarmonica si è dedicato ad altre tastiere, il pianoforte in primis, ma anche il Rhodes, l’organo Hammond….
Le note di produzione all’interno dell’album riportano altri musicisti, sono ospiti che abbiamo invitato affinché il suono del nostro disco risultasse ricco, multitimbrico, colorato… Abbiamo usato theremin, lap steel guitar, corno francese, tromba, violoncello… Per la resa dal vivo talvolta chiediamo aiuto all’alchimista della chitarra elettrica Mirko Di Cataldo, quando le dimensioni del palco lo consentono. Tuttavia l’impianto di fondo delle canzoni – in virtù di opportuni ri-arrangiamenti – regge anche in versione quintetto, e molte funzionano anche in trio chitarra, contrabbasso e fisarmonica».

In che misura è stato importante il luogo in cui buona parte del disco è stato concepito? L'Osteria all'Antico Termine è anche metaforicamente al centro del disco?
«L’idea di recarci in un luogo isolato come il monte Summano (la “testa dell’elefante”) è stata dettata dall’intuito. Non sapevamo bene cosa vi avremmo trovato, né tantomeno eravamo coscienti che la singolare posizione del monte, sorta di vedetta sospesa tra la pianura urbanizzata e il mondo selvaggio delle cime, ci avrebbe suggerito visioni e punti di osservazione inconsueti. Alla fine del viaggio possiamo dire che abbiamo acquisito la consapevolezza che il microcosmo della Montagna altro non è che uno degli infiniti specchi in cui l’Uomo può vedere se stesso e l’Universo. Lo scrittore argentino J.L. Borges ricordò di aver letto che se potessimo comprendere un solo fiore sapremmo chi siamo e cos’è il mondo. Le spalle di una donna che percorre un irto sentiero andino, dei sandali posati sulle assi di una veranda tibetana, lo sventolio di una bandiera presso un rifugio sulle Alpi, le maniche della camicia rimboccate su nudi avambracci di boscaiolo canadese, l’Osteria all’Antico Termine… Sono segni che parlano della miracolosa e precaria presenza dell’essere umano su questo pianeta, e appartengono ad una sfera infinita il cui centro è in ogni luogo».



Quale Nordest affiora in testi come "Sora del mont" e "Foresto casa mia", ma anche nelle istantanee che offrono altri brani del disco, a cominciare da "Rugby di periferia"?a «Il territorio in cui viviamo fa spesso capolino nelle nostre canzoni perché raccontare di ciò che ha attraversato la nostra esperienza personale ci consente di allontanare il rischio di cadere nella retorica, se con ciò si intende "tutto ciò che pare bello, ma non è vero", per dirla con Luigi Meneghello. Ma c’è anche un’istanza politica in questa scelta, ed è contro l’omologazione dovuta agli effetti della globalizzazione economica, un processo che sembra voler fare degli spazi dove vivono le persone un non-luogo senz’anima, un centro commerciale senza confini. Cantare il nostro territorio e le sue trasformazioni non rappresenta per noi un rimpiangere tempi passati, bensì proiettarci in un nuovo senso di comunità, perché il rito di raccontare e ascoltare storie ci rende più umani, meno consumatori, e infine custodi – pubblico e cantori – del luogo in cui viviamo».

Testi e musiche sono quasi interamente curati da Giorgio e Sergio. Come nasce il processo di scrittura e come scegliete, in tre casi, di collaborare come co-autori? Siete cambiati anche nel vostro essere musicisti rispetto all'ultimo lavoro discografico? In che misura il resto della Bottega contribuisce agli arrangiamenti?
«Rispetto ai lavori precedenti abbiamo scelto di mettere ancora di più l’arrangiamento al servizio della canzone, concentrandoci sulla capacità della musica di comunicare stati d’animo, di raccontare storie. Paradossalmente, anziché peso questo ha dato leggerezza ai testi, lasciando che il contenuto si esprimesse attraverso atmosfere musicali più consapevoli del messaggio di ciascun brano. Come conseguenza c’è stato un aumento del ruolo decisionale da parte degli autori (Giorgio e Sergio) a scapito del libero intervento creativo in fase di arrangiamento degli altri componenti. Ciò nonostante il lavoro di gruppo in sala prove è stato determinante e infatti i credit del disco riportano che la produzione artistica è stata curata da tutta la band, coadiuvata da Carlo Carcano, con il quale abbiamo prima messo a fuoco gli “obiettivi” di ciascuna canzone e poi cercato le vie per raggiungerli. In Bottega si suona molto, ma nella realizzazione di un disco altrettanto ci si interroga, si discute, a volte ci si scontra pur di cercare la maniera più efficace per realizzare ciò che abbiamo in cuore di fare».

Dove vi piace suonare e, in chiave di strumentazione, che scelte vanno fatte nel proporre questi brani dal vivo? Come sono andati i primi concerti? In che modo questo nuovo repertorio interagisce con quello precedente?
«Prediligiamo gli spazi in cui si realizza un incontro tra artisti e pubblico, in questo senso la grammatica del concerto rock ci è un po’ aliena. Pensiamo che il teatro, dove ci si vede in faccia e i volumi dell’amplificazione hanno proporzioni umane sia il luogo migliore per proporre la nostra musica e soffriamo se l’elettrificazione del suono non riesce a ricreare l’equilibrio naturale del suono dei nostri strumenti. In queste prime settimane dalla pubblicazione dell’album abbiamo proposto le nuove canzoni in scenari diversissimi, dal palco all’aperto con centinaia di persone alla libreria davanti a dieci ascoltatori. Siamo una band di musica acustica e questo ci rende elastici e pronti ad adattarci ovunque ci sia qualcuno disposto ad ascoltarci. La sensazione è che le nuove canzoni dialoghino con il nostro repertorio proiettandoci in territori emotivi ancora più personali e intensi, e che rispondano ad una urgenza espressiva forse figlia dei tempi di cambiamento che stiamo vivendo».

Com'è nata l'idea del collage, molto efficace e suggestivo, che troviamo in copertina e all'interno del disco in formato poster?
«Una sera del novembre scorso ci trovavamo in un’osteria sui colli euganei per festeggiare la chiusura dei missaggi dell’album; si sa, ogni scusa è buona per fare baracca. Dopo i brindisi e le portate abbiamo cominciato ad immaginare le caratteristiche che avrebbe dovuto avere la confezione grafica del lavoro. Sentendoci usare aggettivi come caleidoscopico e vintage Max Trisotto (l’ingegnere del suono che ha curato la realizzazione del disco) ci ha consigliato di consultare il lavoro dell’artista pugliese Filippo Quaranta “Nepo”, specializzato nella tecnica del collage. Il suo stile ci ha incuriosito e l’abbiamo contattato, lui si è lasciato ispirare dall’ascolto delle canzoni e nel corso di una notte è nato il lavoro che è diventato la copertina dell’album. Ce ne siamo innamorati al punto da volerlo inserire come poster all’interno della confezione nelle dimensioni della copertina di un vinile».

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