Quando nel 2012, a soli 22 anni, la giuria del Top Jazz votava Enrico Zanisi come “miglior nuovo talento” del jazz italiano, chi già conosceva il giovane pianista non si è certo stupito.
Grazie a una solida formazione e a una musicalità in grado di maturare rapidamente grazie alla curiosità e all’apertura verso i linguaggi più vari, Zanisi si è distinto come una delle voci più fresche e originali del nostro jazz.
La sua più recente fatica discografica, Blend Pages (CamJazz, ne potete ascoltare degli estratti qui) è un raffinato affresco sonoro che oltre al pianoforte vede impegnati clarinetto, percussioni e un quartetto d’archi. In un’articolata trama tra scrittura e possibilità improvvisative, il disco è un’ulteriore prova della sensibilità del musicista, che abbiamo incontrato per l’occasione.
Incomincerei la nostra chiacchierata da Blend Pages, il nuovo disco. Come nascono le nove composizioni del disco e come mai hai pensato di lavorare con un impianto chiaramente cameristico?
«Le composizioni di questo disco sono frutto di un anno di lavoro, tra studio, scrittura e tanti nuovi ascolti. L’impianto originale del progetto constava solo di pianoforte e quartetto d’archi ma, man mano che mi addentravo nella scrittura, sentivo l’esigenza di aggiungere più voci all’organico e di avere più colori nella tavolozza. Per l’idea di musica che si stava via via delineando, sapevo inoltre di dover trovare un quartetto non solo in grado di eseguire la musica che avevo scritto, ma anche di interpretarla con una certa flessibilità e consapevolezza ritmica, e saper improvvisare e liberarsi negli spazi che lo prevedevano: la scelta di avere il Quatuor IXI di Règis Huby ha risposto proprio a questa esigenza».
Si sono quindi aggiunti Gabriele Mirabassi e Michele Rabbia.
«Gabriele Mirabassi è una voce importante all’interno del disco, grazie alla particolarità e all’estrema duttilità del suo suono e al grande talento che ha sia nell’improvvisare che nell’interpretare temi e melodie.
Michele Rabbia ha saputo inserirsi con grande creatività ed eleganza nei brani che lo vedono al suo personalissimo set di percussioni e all’elettronica. Ho imparato molto da lui, guardandolo approcciarsi alla musica e facendomi consigliare ascolti e nuovi artisti».
Tornando al disco…
«In generale in questa occasione mi sono veramente posto per la prima volta nella veste del compositore/arrangiatore, cercando di immaginare, prima di poterlo ascoltare, il suono che avrei voluto ottenere in un dato brano, o passaggio. La scelta di tutti i componenti di questo ensemble cameristico è stata decisa avendo in mente già una formula, un suono, una direzione che, nel corso del tempo, ha subito diverse modifiche, ma era finalizzata a fotografare un particolare momento del mio percorso artistico/musicale».
Qual è la relazione tra il materiale scritto e le possibilità di variarlo liberamente in questa nuova musica?
«La scrittura è molto importante, ma lo sono anche gli interpreti. Direi che il disco non potrebbe esistere senza gli stessi musicisti che l’hanno suonato. Specialmente la scelta di avere con noi il Quatuor IXI, mi ha permesso di concepire il materiale in maniera diversa dal solito, lasciando spazio all’interpretazione creativa di alcune parti e al “non detto”. Trattandosi di un gruppo consistente, sarebbe stato ovviamente molto difficile trattarlo come un normale gruppo “jazz” o di improvvisazione, quindi ho dovuto prevedere le parti libere, in congiunzione a quelle scritte. La vera variazione, che fa prendere forma ai brani, sta nell’avere a disposizione musicisti che hanno potuto interpretare in maniera “jazzistica”, dunque in qualche modo estemporanea e con un suono contemporaneo le mie composizioni».
Parlavamo prima poco fa di Gabriele Mirabassi e Michele Rabbia. Cosa hanno apportato alla musica che non ti saresti aspettato?
«Ho scelto di avere con me questi due straordinari musicisti come ospiti del progetto perché sapevo cosa avrebbero potuto aggiungere alla musica. Ho ragionato molto come compositore in questo disco, anche nella scelta dei musicisti, quindi delle caratteristiche peculiari di ognuno, del loro timbro, delle loro possibilità espressive; li ho voluti proprio con me, però, anche per la loro capacità di sorprendermi, di trovare quella soluzione che non ti aspetti. Sono entrambi musicisti molto creativi, ognuno con una propria personalità e, in questo progetto, li ho trovati molto complementari».
Sei coinvolto in molti progetti di tuoi colleghi giovani, penso ai gruppi di Matteo Bortone, Francesco Ponticelli o Francesco Diodati solo per dirne alcuni. Come ti inserisci in queste dinamiche? Ho spesso l’impressione che tu abbia una natura più meditativa e riflessiva, degli orizzonti in cui l’aspetto dell’intimità in musica ha una sua centralità, sbaglio?
«Immagino che sia così, anche se, essere riflessivo e meditativo, però, per me non deve voler dire chiudersi in sé stesso, avere paura di esporsi. L’intimità in musica è un concetto che, sebbene in generale credo possa calzarmi, non mi piace sempre perché talvolta potrebbe anche indicare timidezza, chiusura verso l’esterno, insicurezza. In generale, secondo me, è difficile catalogare emotivamente l’approccio/stile musicale di ognuno, poiché è veramente impossibile cristallizzare in parole compiute le infinite sfumature espressive ed emotive di un musicista».
Hai ragione, la sintesi non rende ogni sfumatura, ma magari è utile per capire meglio...
«Per me intimità vuol dire andare in profondità, essere in grado di stare con sé stessi, sopportarsi, viversi il momento senza doversi necessariamente abbandonare a un godimento esasperato, ostentato. I gruppi dei musicisti che hai citato sono molto diversi tra di loro, sia per il ruolo che ricopro, sia per la musica che devo affrontare. Sono tutti gruppi molto stimolanti, in cui sono cresciuto: non è sempre facile mediare tra la propria visione musicale e la direzione che il leader del gruppo vuole/vorrebbe suggerire; è importante però in questa musica essere disposti a rivedere con frequenza le proprie posizioni, dubitare eppure cercare di dire la propria.
Il bello di poter avere a che fare con musicisti maturi come Matteo, Francesco e Francesco, è che nulla è dato mai per scontato e la ricerca di un suono, un’idea espressiva, sono sempre molto importanti e al centro della discussione: non è sempre facile, ma è fondamentale ed è da questo che si riconosce un gruppo».
In questi giorni è mancato Cecil Taylor (lo abbiamo ricordato qui), musicista che affrontò il piano solo (formula in cui è stato un maestro) solo ben dopo i 35 anni – e testimoniato discograficamente ancora dopo. Lo stesso può dirsi di Andrew Hill, anche lui approdato al solo in anni di maturità. Horace Silver praticamente non ha suonato mai in solo. Tu – come altri colleghi di età analoga – hai pubblicato il tuo primo disco in solo a poco più di 25 anni. Come ti relazioni con questo mondo così preciso e in fondo “spietato” che è il piano solo?
«Il piano solo è al contempo una dimensione piacevole e pericolosa, avvincente e rischiosa. Tutto ciò è sicuramente stimolante, e ciò che cerco di fare io è trovare il tempo giusto per esprimere quello che sento in un dato momento. Il tempo è una costante importantissima, soprattutto quando ci si immagina dall’esterno mentre si suona. Non ci sono regole secondo me per affrontare il piano solo, tranne che, come in tutte le cose, deve piacere veramente. Ci sono pianisti come Bill Evans, Jarrett o Mehldau che ne hanno fatto una costante nella loro carriera, mentre altri come Herbie Hancock o Chick Corea hanno affrontato la dimensione del piano solo più raramente. A mio avviso è importante non avere troppe sovrastrutture, ma cercare solo di riconoscersi in ciò che si sta facendo. In generale io cerco di avere un po’ di coraggio, di portare un’idea fino al suo naturale compimento, di non lasciarmi sopraffare emotivamente e di cercare una sorta di chiarezza espressiva e in qualche modo “formale”, che mi dia la sensazione di aver esposto un discorso di senso compiuto».
Riprendo qualche annotazione che scrivevo su queste pagine proprio in occasione del tuo disco in solo e di quello di Alessandro Lanzoni: “[…] difficile trovare momenti “sperimentali” o di evidente scarto dalla tonalitànel pianismo di Zanisi e Lanzoni […]: sarà una cosa generazionale? Sarà che, data la natura intima di questi lavori, c’è una – ovviamente augurabile – serenità dovuta all’età e che non spinge a interessarsi dei grumi, degli spigoli, ma solo della consonanza (pur in una concezione evoluta, pienamente novecentesca)?”
E ancora: “sono pianisti davvero splendidi, questi due giovani ragazzi: hanno un controllo della tastiera e della forma che non teme rivali e entrambi i dischi rivelano momenti davvero riusciti, quello che continua a rimanere per me un piccolo mistero (ma mi riprometto di chiederlo loro personalmente) è – al netto ovviamente delle scelte estetiche del produttore – è come mai un sacco di possibili stimoli (magari meno “aggraziati”) che animano le culture – giovanili o meno – di oggi, mi sembrino così lontani da queste, pur bellissime note”.
Ecco, siccome mi ero ripromesso di chiedertelo personalmente, lo faccio ora: non senti ogni tanto il desiderio di sperimentare qualcosa di più avventuroso e “estremo” dal punto di vista del linguaggio?
«Dipende dalla concezione di estremo. O meglio, dipende se si ha questa concezione. Per me nulla è estremo eppure anche tutto lo è in qualche modo, perché tento sempre di non adagiarmi sugli allori, ma di avere il coraggio di dire qualcosa (anche se questa “cosa” non sempre può avere un “senso”). Sicuramente chi ascolterà un mio concerto o un mio disco sarà più in grado di me di inserire il mio linguaggio musicale in una casella stilistica, ma io, se non fosse per il fatto che frequento un certo ambiente musicale, cerco di non preoccuparmene. Forse dando una indicazione di ciò che è estremo si potrebbe dire anche ciò che non lo è? O viceversa? Cecil Taylor era estremo? Benoit Delbecq è estremo? Matt Mitchell è avventuroso?».
Beh… posto che ho usato il termine “estremo” in modo generale, per intendersi, direi che di certo Taylor era abbastanza “estremo” e Mitchell mi sembra felicemente avventuroso…
«Beh, forse sì per chi non li ha mai ascoltati prima, forse no dal punto di vista dei musicisti stessi. A me piacciono, comunicano qualcosa, ognuno con il proprio linguaggio: mi interessano, mi arricchiscono. Come loro tanti altri ovviamente, musicisti sinceri, che portano (hanno portato) avanti una ricerca personale forte di significati. Io immagino di poter utilizzare accordi o frasi un po’ più “estreme” di Erroll Garner rispetto al gusto che hanno alcuni musicisti/uditori riferendosi alla sua epoca musicale, eppure a me suonano normali».
«Io sperimento tutti i giorni, mi sento sperimentatore curioso, ma so che farei un grande torto a me stesso se non cercassi di essere onesto con quello che faccio».
«Sarebbe molto difficile per me poter esprimere qualcosa se a priori decidessi di essere più avventuroso o estremo, di interessarmi a categorie della critica piuttosto che al processo creativo. Io sperimento in verità tutti i giorni, mi sento sperimentatore curioso, ma so che farei un grande torto a me stesso se non cercassi di essere onesto con quello che faccio».
Beh, nella domanda non è mai stato nemmeno adombrato il dubbio che non ci sia onestà nella tua musica, ci mancherebbe, così come il punto non è decidere aprioristicamente di scegliere percorsi che non si sentono propri…
«È vero però che nel corso degli anni mi sento molto cambiato, il mio modo di suonare e di pensare la composizione si è evoluto, nel senso che mi sento più sicuro, un po’ più completo e anche più affamato di musica. Se questo è successo è perché ho sempre cercato di accogliere le opportunità (le più diverse tra loro) che mi son arrivate, ho provato a mettermi in discussione il più possibile, ma ho anche evitato di imporre a me stesso quelle soluzioni che non mi “risuonavano”, tentando magari di perdermi per sembrare diverso.
Non si può essere tutto, avere tutto, imparare tutto, in modo particolare in un campo come quello artistico dove musicisti eccezionali suonano e pubblicano dischi ogni giorno. Si può essere se stessi però, tentando di mediare tra ciò che ci piace di noi e ciò che ci piacerebbe migliorare, cercando di essere sempre aperti alle novità, trovando soddisfazione e divertimento nel processo creativo, senza lasciarsi sopraffare dalla moltitudine di input che si ricevono quotidianamente, ma accettandoli e modulandoli secondo i propri gusti, con la consapevolezza che si ha qualcosa da dire».
Sono d’accordo con te! E che cosa stai ascoltando in queste settimane?
«Soprattutto musica elettronica, di qualsiasi estrazione. È da un annetto che ho l’opportunità di suonare sintetizzatori di diverso tipo in vari contesti e, di colpo, mi sono ritrovato ad ascoltare una quantità di musica meravigliosa a me completamente sconosciuta.
Ho capito di avere un grande gap nei confronti della musica elettronica e ho quindi deciso di investire molto del mio studio di ascolto su questa musica. Tra gli artisti che sto ascoltando ultimamente ci sono Roly Porter, Holly Herndon, Caterina Barbieri, Visibile Cloaks, Flying Lotus, Kaitlyn Aurelia Smith, Byetone, Henrik Schwarz, Ricardo Villalobos…».
I tuoi prossimi impegni?
«Sono coinvolto in molti progetti, anche molto differenti tra loro, ma che mi danno l’opportunità di cambiare spesso approccio alla musica, il che mi stimola moltissimo poiché mi aiuta a migliorarmi su vari fronti e ad approfondire aspetti della musica sempre diversi. Nonostante i gruppi e gli impegni siano davvero tanti, mi sento sempre molto felice e curioso di affrontarli. Tra i prossimi impegni, molti dei quali con gruppi non a mio nome, riuscirò anche a fare due concerti in piano solo, uno il 6 maggio alla Casa da Musica di Porto in Portogallo e un altro il 13 maggio a Sacile».