Tra i fotografi italiani di jazz più attivi e originali, il bergamasco Luciano Rossetti si è guadagnato in questi anni la stima e l’affetto di un numero altissimo di musicisti, direttori artistici, critici, addetti ai lavori, nonché, ovviamente, del pubblico, che nelle sue fotografie trova sempre qualcosa di più del semplice momento suonato o dell’espressione curiosa di un musicista.
Due mostre, negli ultimi mesi, lo hanno visto protagonista: Immaginare la musica (insieme al collega Luca d’Agostino), che è stata per tutta l’estate alla Galleria Nazionale dell’Umbria, e che è divenuta anche un bellissimo libro; e Contaminazioni contemporanee alla GAMeC – Galleria d’Arte Moderna e Contemporanea di Bergamo, che si è conclusa da poche settimane.
Abbiamo approfittato di queste due occasioni per fare una chiacchierata con Rossetti su molti temi, da quelli inerenti la sua carriera a alcuni “problemi” generali del fotografare jazz oggi.
Partirei brevemente ricordando come hai iniziato a fotografare musica, le tue prime esperienze.
«Ho cominciato a fotografare nel 1976, con l’acquisto della mia prima fotocamera, una Pentax K1000; ho sempre avuto interesse per la musica, per il teatro, andare ai concerti, agli spettacoli. Ho conosciuto un bravo fotografo, Ruggiero Giuliani, che mi ha fatto sviluppare la curiosità, il raccontare usando la macchina fotografica. Mi diceva sempre “guarda dietro, non ti accontentare del davanti, il davanti lo vedono tutti, tu, se puoi, vai dietro”. Nell’estate ’79 ero a Pesaro al concerto di Pino Daniele (la tournée storica con Tullio De Piscopo, Rino Zurzolo, James Senese, Tony Esposito, Joe Amoruso), appena spente le luci, ho scavalcato le transenne e mi sono trovato sotto palco: a quei tempi il servizio d’ordine non era come quelli di oggi e se avevi una macchina fotografica ti guardavano con simpatia, non come oggi, si poteva fare».
Una carriera nata scavalcando quindi!
«Con la stessa tecnica in quegli anni ho fotografato Fabrizio De André, Il Banco del Mutuo Soccorso, Ron, Teresa De Sio (con alla batteria un giovane Roberto Gatto), Lucio Dalla, Enzo Jannacci e tanti altri; erano altri tempi, questi concerti arrivano anche in provincia (dove io vivevo), era più facile avvicinarsi. Il mio primo concerto jazz l’ho fotografato poi nel 1982, era il settetto di George Coleman (con Bobby Watson e Billy Higgins): ero in compagnia del mio mentore Ruggero Giuliani e, non so come, tra il primo e secondo set, ci siamo trovati nei camerini del gruppo: è stata una folgorazione, quella era la fotografia che mi interessava».
Quali sono i musicisti – tra le centinaia e centinaia che hai fotografato – con cui hai più sentito una comunanza artistica?
«Sicuramente Butch Morris, una bella persona oltre che un grande musicista, con il quale ho avuto l’onore di lavorare in modo completo dal 2007 al 2012, sui set delle sue Conduction o a spasso per New York, per le strade dell'East Village o a Brooklyn; lavoro che si è concretizzato in un DVD sulla gestualità nelle sue Conduction (prodotto dal festival Ai Confini tra Sardegna e Jazz di Sant’Anna Arresi). Con Rob Mazurek, con il quale, negli anni, si è instaurato un bel rapporto di amicizia (sono stato il suo fotografo di matrimonio), ma soprattutto con Garrison Fewell, un grande uomo, un grande musicista, un grande didatta; eravamo molto legati, una forte amicizia che si è interrotta il 5 luglio del 2015 quando ci ha lasciato, lui a Boston noi a Clusone, due ore prima della presentazione dell’edizione italiana del libro Outside Music Inside Voices, che lui aveva scritto ma che era nato a tavola, tra una amatriciana e un bicchiere di buon vino – lui era un grande esperto di vini –, partendo dall’elenco di musicisti che io gli avevo indicato, su sua sollecitazione, e che poi lui aveva trasformato in interviste sulla filosofia dell’improvvisazione. Una grande perdita. Umana e musicale».
La fotografia di jazz e di musica in genere è molto cambiata con l’avvento del digitale e ora degli smartphone. È cambiato il tuo approccio da quando il “fabbisogno” (chiamiamolo così) di immagini dai concerti è stato abbondantemente – anche se non qualitativamente – soddisfatto da questa invasione dal basso?
«Ho un “occhio analogico”, la mia testa ragiona come se in macchina avessi la pellicola (che uso ancora adesso), anche se è indubbio che il digitale agevola molto. Bisogna però non farsi trascinare dall’entusiasmo dell’immediatezza del digitale, bisogna prendersi il tempo, ragionare, guardare. Vedo spesso fotografi che scattano a raffica senza neanche guardare “tanto poi si sceglie dopo”… di solito i fotografi che ragionano così, dopo, non sanno scegliere. La scelta determina il fotografo, saper scegliere è per me quasi più importante dello scatto. Scegliere è difficile, avere 3-400 foto di un concerto, tutte tecnicamente “buone”, obbliga a fare delle scelte che, come dicevo prima, determinano l’occhio del fotografo (perché scelgo questa e non quest’altra?)».
«Vedo spesso fotografi che scattano a raffica senza neanche guardare “tanto poi si sceglie dopo”… di solito i fotografi che ragionano così, dopo, non sanno scegliere».
«Cerco di spiegarmi: oggi, con poche centinaia di euro si può avere a disposizione un’attrezzatura quasi professionale, tutti quindi possono mettersi sotto un palco di un concerto jazz e fotografare; e grazie all’attrezzatura, si possono ottenere delle foto tecnicamente perfette; ma queste immagini tecnicamente buone cosa raccontano, cosa trasmettono a chi le guarda? Molto spesso chi fotografa il jazz oggi non si pone questa domanda».
In cosa quindi oggi un grande fotografo di musica può ancora fare la differenza rispetto al diluvio di immagini in cui siamo immersi? Non dico solo dal punto di vista della qualità tecnica, dico concettualmente.
«La cosa che fa la differenza sono le idee. Vedo molti “photographers” (termine oggi usato spesso anche dagli italiani, non capisco perché) ma poche idee. Vedo molte persone girare intorno ai palchi dei concerti con attrezzature professionali, ma senza sapere cosa fotografare; scattano a raffica, “sparano” su qualsiasi cosa si muova sul palco, spesso senza un minimo di rispetto per i musicisti e per il pubblico; vedo centinaia di foto on-line, sui social, tutte uguali, banali, che dicono in modo preciso che chi le ha scattate non aveva le idee ben chiare su cosa fotografare. E quelli che invece dimostrano di saper cosa fotografare, spesso cercano solo il sensazionale, il musicista nella posa plastica, volti tirati, i capelli al vento, sguardi ieratici, luci estremizzate, “postatomiche”… tutte uguali anche queste, tutte “solarizzate”, senza ombre. Confesso che faccio molta fatica a capire certe scelte, sia tecniche sia estetiche».
Quali sono gli elementi che più ti colpiscono quando scatti una foto?
«La composizione. Quando fotografo, cerco di raccontare, quindi quello che mi colpisce è l’atmosfera che si crea sul palco, l’armonia, specialmente durante le prove, cerco di comporre la scena con le persone sul palco, nessuna esclusa, anche i tecnici se serve, il fine è l’armonia della composizione, la simmetria o l’asimmetria, dipende. A volte sul palco invece c’è tensione – problemi tecnici, ritardo sui tempi, musicisti stanchi – e il fotografo dovrebbe capirlo al volo, togliendosi di torno per non diventare esso stesso un problema, cercando poi, con discrezione, di catturare le “energie” che si potrebbero sviluppare sul palco e che potrebbero diventare fotograficamente importanti. Credo che una delle principali qualità che un buon fotografo di spettacolo debba avere sia la sensibilità: sensibilità nei confronti delle persone e della musica».
Raccontaci brevemente come hai scelto gli scatti della mostra di Bergamo, Contaminazioni Contemporanee e come hai scelto quelli della mostra di Perugia della scorsa estate, insieme a Luca D’Agostino
«In entrambi i casi, le mostre hanno avuto un curatore: Alessandro Bettonagli per la mostra di Bergamo e Claudio Chianura per la mostra a Perugia. Due mostre completamente diverse. La mostra di Bergamo, Contaminazioni contemporanee, è il coronamento di undici anni di Festival (di cui Bettonagli è il direttore artistico), un festival di musica contemporanea, quasi esclusivamente con musicisti ECM. Un lavoro d’archivio quindi preciso e definito, con la finalità di scegliere, tra le migliaia, degli scatti che restituissero le atmosfere intime e raccolte, molto spesso in bellissime chiese di Bergamo, scatti che riuscissero a cristallizzare i momenti, le atmosfere».
«Credo che una delle principali qualità che un buon fotografo di spettacolo debba avere sia la sensibilità: sensibilità nei confronti delle persone e della musica».
«Per Perugia invece, Immaginare la musica, alla Galleria Nazionale dell’Umbria (mostra realizzata con foto mie e di Luca d’Agostino, mio socio d’Agenzia), Claudio Chianura ha voluto dare uno sguardo globale sulle musiche – jazz, classica, pop, reggae –, uno sguardo che, come dice il titolo, lasciasse all’immaginazione il compito di vedere, attraverso le foto, la musica; lavoro d’archivio imponente, tra migliaia di scatti. Entrambe le mostre per me molto importanti, ospitate in Musei molto prestigiosi, due tappe molto importanti del mio percorso fotografico».
Parlavi appunto dell’Agenzia Phocus. Cosa vuol dire fare parte di un’agenzia? Che ideali e che pratiche si condividono?
«Phocus nasce nel 2004 da un gruppo di amici fotografi, che hanno saputo trasformare un’esperienza potenzialmente positiva, ma finita male, in capacità costruttiva e propositiva. Far parte di un’agenzia significa condividere una passione, rispettando il lavoro e le individualità di ogni membro; per noi significa rispettare la territorialità, senza sovrapposizioni, se non concordate e condivise. Phocus è viva, facciamo mostre collettive, ci scambiamo lavori e opinioni, siamo aperti all’esterno (è capitato di “passare” lavori ad amici fotografi esterni all’Agenzia), lavoriamo con passione, anche in questo periodo molto difficile da tutti i punti di vista, specialmente quello economico. Come Agenzia cerchiamo di portare avanti una linea etica ed estetica, cerchiamo di affermare una cosa che dovrebbe essere scontata: fare fotografia è un lavoro e come tale va retribuito. Potrebbe sembrare un’ovvietà, ma nel mondo della fotografia jazz non lo è. Molto spesso dobbiamo confrontarci con fotografi che regalano foto, lavorano gratis, in cambio della sola gratitudine e della benevolenza del committente, una pratica scorretta ma ahimè, nel mondo del jazz, molto diffusa».
Qual è la tua attrezzatura attuale? Cosa usi prevalentemente e quanto intervieni in post produzione?
«Canon. Lavoro con due corpi macchina, 5D MarkII e 5D MarkIII; obiettivi 16-35 f2.8, 24-105 f4, 70-200 f2.8, 300 f4 + una Leica M6 sempre pronta con un negativo caricato. Postproduzione ridotta al minimo. Ho una camera oscura, ho sviluppato e stampato per anni le mie foto; adesso che c’è il digitale, per me, non è cambiato molto, solo gli strumenti. Volendo fare un parallelismo, sono convinto che il buon vino lo si faccia in vigna e non in cantina; allo stesso modo, le buone foto le devi vedere e scattare, non le puoi “creare” dopo. Negli ultimi anni, nella fotografia jazz, vedo tanta postproduzione e poche foto interessanti (specialmente sui social), oppure potrebbe anche essere che chi fa foto interessanti non le pubblichi sui social (probabile) o non le renda visibili sul web; la moda del momento sembra “imporre” un uso estremo dei filtri che schiariscono le ombre, mentre il jazz è per definizione una musica in bianco e nero, fatta di luci e di ombre».
L’hanno scorso hai curato la mostra del compianto Riccardo Schwamenthal al Festival di Bergamo. Cosa hai imparato da Riccardo e cosa ci raccontano quelle sue foto ancora oggi?
«Sono molto contento e onorato di aver avuto questo privilegio. Conoscevo già il lavoro di Riccardo perché faceva parte della nostra Agenzia, ma avere la possibilità, con l’aiuto affettuoso della sua famiglia, di attingere direttamente dal suo archivio per allestire la mostra, mi ha permesso di vedere con occhi diversi il suo lavoro; mi sono reso conto di quanta passione Riccardo avesse per la musica (non solo per il jazz). Vedere le sue foto degli anni Sessanta scattate a Parigi, a Juan Le Pins o a Sanremo mi ha fatto ricordare i suoi racconti sentiti tante volte, di quando lui e i suoi amici bergamaschi partivano su una Fiat 600 alla volta della Francia, vere e proprie spedizioni, oppure gli appostamenti alla Stazione Centrale di Milano ad aspettare l’arrivo del treno con Duke Ellington, accolto come una vera star da decine e decine di persone. Racconti di altri tempi, un altro jazz, un’altra fotografia».
I fotografi di musica (e non) che ti hanno influenzato.
«Henri Cartier Bresson, il suo occhio, il suo modo di fotografare, per me il n.1 assoluto. Poi Guy Le Querrec, che è il mio modello per la fotografia jazz, un gigante, un’intelligenza di sguardo, una rapidità di esecuzione (scatta solo in negativo, con la Leica, non semplice da usare); ho avuto il piacere di conoscerlo e di fotografare di fianco a lui, un gigante. Tra i colleghi italiani cito Pino Ninfa: da una sua mostra vista all’Arengario di Milano, credo nel ’98, ho capito veramente il tipo di foto che mi sarebbe piaciuto realizzare, le situazioni che avrei dovuto cercare. E sicuramente Silvia Lelli e Roberto Masotti, provo per loro grande stima, sono parte della storia della fotografia musicale italiana, e invidio il loro essere stati presenti nel periodo storico Settanta-Ottanta: Cage, Stratos, i grandi direttori d’orchestra, un archivio immenso: grande rispetto.
«Adesso che c’è il digitale, per me, non è cambiato molto, solo gli strumenti. Volendo fare un parallelismo, sono convinto che il buon vino lo si faccia in vigna e non in cantina».
Poi c’è Jimmy Katz, a mio avviso il più grande ritrattista di jazz al mondo, un modello inarrivabile; nonostante lo conosca di persona e abbia avuto la fortuna di stargli di fianco più volte durante workshop e shootings, rimane per me un mistero la sua capacità di addomesticare e miscelare luci naturali e luci artificiali durante i suoi set fotografici. Nessuno è meglio di lui e di sua moglie Dena, da anni sua insostituibile collaboratrice».
Come vedi la situazione attuale della fotografia rispetto alla carta stampata e all’editoria in generale.
«Una tragedia. Oramai quasi più nessuno paga le fotografie, specialmente in Italia. I quotidiani pagano sempre meno, le riviste, generaliste e specializzate, utilizzano spesso foto “cortesia”, che significa che le chiedono agli uffici stampa, gratis ovviamente. Nel mondo del jazz è anche peggio: difficile riuscire a farsi pagare dai musicisti, che hanno anche loro grossi problemi, oramai pochi festival hanno un fotografo ufficiale e se ce l’hanno il discorso economico è sempre molto problematico; i management… lasciamo perdere. Sembra che nessuno si ricordi più che la storia del jazz è stata fatta anche dai fotografi, che da sempre documentano questa musica, immortalando i momenti che sono diventati iconici; l’impressione è che la fotografia (i fotografi) siano solo un problema da dover gestire».
Cosa ascolta Luciano Rossetti in queste settimane?
«Roots Magic, Last Kind Words, Meredith Monk-Katia Geissinger, Live in Bergamo, Bach, Suites Francesi di Glenn Gould, Evan Parker-Walter Prati, Hall of Mirrors-Pulse, Sclavis-Texier-Roman+Le Querrec Carnet de Routes, Sigur Rós, Hvarf-Heim e Garrison Fewell, Variable Density Sound Orchestra».