Michael Porter (Sipho) e Katerina Kasper (Lucia) nell'allestimento di "An unserem Fluss" (Presso il nostro fiume) al Bockenheimer Depot di Francoforte © Monika Ritterhaus
Lior Navok è nato a Tel Aviv nel 1971. Le sue composizioni sono state eseguite alla Carnegie Hall, alla Filarmonia di Berlino, la Staatstoper di Berlino e l'Opera House di Sidney fra l'altro. Attivo soprattutto nella musica da camera e sinfonica, negli anni più recenti ha affrontato anche il genere operistico con due lavori per ragazzi (Le avventure di Pinocchio e La sirenetta) e con l'opera da camera La scommessa da un racconto di Anton Cechov. La sua opera più recente, An unserem Fluss (Presso il nostro fiume) nata su impulso di Bernd Loebe, sovrintendente dell'Oper Frankfurt che l'ha commissionata, racconta di un conflitto insanabile fra due popoli che abitano sulle sponde opposte di un fiume. Rancori antichi, dispute per la proprietà dell'acqua, piccole violenze quotidiane che l'amore fra le due sponde di Lucia e Sipho non riuscirà a fermare. Nonostante il libretto inviti a evitare «ogni spunto mediorientale sia nella scena che nei costumi», è inevitabile che non si pensi al conflitto all'apparenza insanabile che da decenni divide palestinesi e israeliani. E del resto, tracce di medioriente si ritrovano nell'allestimento curato da Corinna Tetzel per il Bockenheimer Depot, la scena minore dell'Oper Frankfurt.
«Ogni dramma ha bisogno di un conflitto. Se lo si elimina, si dissolve l'essenza stessa del dramma. La tensione nasce da questo. Che ne sarebbe di Romeo e Giulietta se le due famiglie andassero improvvisamente d'accordo?» spiega Lior Navok, a qualche giorno dal debutto dello spettacolo. «A partire da questi dai vari livelli di conflitto, ho cercato di scavare nella psicologia dei personaggi interrogandomi su come essi reagiscano all'esperienza che vivono. E ogni personaggio dà risposte diverse ma ognuno pensa di essere dalla parte giusta. Pensa di avere Dio dalla sua parte».
Perché non raccontare esplicitamente di quel conflitto così vicino al suo vissuto personale?
«Pur restando su livello simbolico, anche la mia opera racconta di un conflitto che si manifesta su diversi piani: quello etnico, quello religioso e quello economico. Non volevo però parlare esplicitamente del conflitto israelo-palestinese, ma mi interessava raccontare di una situazione che può essere vera anche per molte altre realtà».
Ma il messaggio di pace che c'è nel lavoro non ne sarebbe uscito rafforzato? «Non sarei stato obiettivo. Restare su un piano generale aiuta a aprire gli occhi sulle ragioni reali di un conflitto, di ogni conflitto. D'altra parte non volevo fare la televisione in scena raccontando vicende troppo legate all'attualità. Nonostante affronti il tema del conflitto su un piano simbolico e generale, i riferimenti alla realtà del mio paese sono comunque evidenti».
Assistendo all'opera, colpisce una certa prudenza nel rappresentare le ragioni (o i torti) dei due popoli rivali. Timore di essere attaccato da una delle parti in causa?
«Un lavoro come questo deve essere quanto più possibile obiettivo rispetto alla storia e all'attualità. Da autore, sento di dover rappresentare tutte le parti in causa. Essendo nato a Tel Aviv, il rischio di abbracciare un punto di vista "di parte" è chiaramente molto concreto. Lontani da quella realtà è molto facile parlare in maniera equilibrata. Quando si vive in quei luoghi di conflitto, è inevitabile che le dimensione emotiva giochi un ruolo».
Che tipo di reazione si aspetta o magari teme?
«Se sarò attaccato da entrambe le parti, vorrà dire che ho fatto un buon lavoro. Credo che la mia opera tocchi temi sensibili per entrambe le parti in gioco».
Lei è autore del libretto. Le sue fonti?
«La trama è frutto delle mie letture di saggi storici, politici, teologici sull'Ebraismo ma anche sull'Islam e il Cristianesimo. Nelle opere di narrativa non ho trovato quello che stavo cercando. Mi interessava soprattutto analizzare le ragioni di una situazione di conflitto. Grazie a queste letture ho sviluppato dei principi generali per capire, ad esempio, perché sia potuto succedere un evento come l'11 settembre».
Lei ha scelto una musica dal tono quasi suadente, piuttosto accattivante. Soltanto nei momenti di alta tensione il suono si fa più aspro e agressivo.
«Non ci sono arie, le frasi sono brevi ma ho cercato di creare tensioni fra le parole stesse. I personaggi esprimono ciò che sentono e l'orchestra amplifica ciò i miei personaggi dicono e anche ciò che provano. E quando un personaggio mente, l'orchestra commenta. Direi che la musica esprime piuttosto una tensione claustrofobica».
Ritiene che l'opera sia ancora un mezzo efficace per raccontare il nostro presente?
«Grazie ai miei lavori per ragazzi, sono entrato a contatto con l'opera in un momento in cui volevo esprimere "di più" al pubblico. Cioè, il pubblico richiede anche un momento di riflessione e l'opera si presta a questo. Attraverso da compositore l'opera riesco a essere più vicino alla società. In altri termini, è un modo per sentirmi più connesso alla nostra contemporaneità».
Lucia, il personaggio più positivo, alla fine dell'opera si rivolge ai due popoli nemici con le parole: "È tempo che ci parliamo". Da compositore, pensa che la musica possa essere un modo per dialogare fra israeliani e palestinesi?
«È la domanda da un milione di dollari ... Che dire? Sono fondamentali l'ottimismo e la speranza. È importante avere fiducia nel futuro per progredire. Senza un'idea di futuro, si sviluppano i fanatismi e il distruggere prevale sul costruire. In questo momento prevalgono forze che spingono perché le cose non cambino. Non credo esista la bacchetta magica né che basti sottoscrivere un pezzo di carta. Ci vuole soprattutto il rispetto reciproco e la capacità di voler imparare gli uni dagli altri. Ma questo risultato è il risultato di un lungo percorso».
Qualcuno ci ha già provato, penso a Daniel Barenboim, fondatore con Edward Saïd della West-Eastern Divan Orchestra ...
«Quello che fa Barenboim è un piccolo ma importante passo. E per quanto mi riguarda, quest'opera è il mio piccolo contributo. Se riuscissi a far aprire gli occhi anche a una sola persona, avrei fatto il mio dovere».
Stefano Nardelli