Questo articolo è pubblicato contemporaneamente sulle seguenti riviste europee, nell'ambito di "Giant Steps", un'operazione di valorizzazione delle giovani musiciste jazz e blues: Citizen Jazz (Fr), JazzMania (Be), Jazz'halo (Be), LondonJazz News (UK), Jazz-Fun (DE), il giornale della musica (IT), In&Out Jazz (ES) e Donos Kulturalny (PL).
#Womentothefore #IWD2024
Credo che Evita Polidoro rappresenti oggi una forza davvero innovativa e indispensabile per il mondo del jazz italiano.
Non solo perché è una fantastica batterista. Non solo perché oltre alla batteria usa, in modo originale, anche la voce. Non solo perché nel suo mondo sonoro entrano – come è naturale che sia – anche le pratiche e i linguaggi del rock indipendente, del punk e della new wave. Più probabilmente perché tutti questi elementi trovano una sintesi eccitante nell’istintiva umanità con cui la musicista approccia ogni progetto.
Formatasi in quella vera e propria fucina di talenti e di consapevolezza che è Siena Jazz, si è fatta notare negli ultimi anni nei gruppi di Dee Dee Bridgewater e di Enrico Rava, così come in alcuni dei più interessanti progetti giovani come il quartetto EMONG del chitarrista Michele Bonifati, ma anche accompagnando una stella del pop come Francesca Michielin.
È uscito da poche settimane – per l’etichetta Tǔk Music – il primo disco del suo progetto Nerovivo, in cui triangola tamburi e voce con due chitarristi.
«È un progetto che nasce nel 2018 a Siena Jazz, tra una lezione e l’altra» ci dice Evita. «Mi sono innamorata di Davide Strangio e Nicolò Faraglia per il loro modo di suonare identitario e mai scontato. Hanno accettato di far parte di questo progetto che ai tempi avevo solamente in testa, in uno stato molto embrionale; con il passare del tempo anche grazie a loro il suono è diventato sempre più definito e finalmente siamo arrivati al risultato di oggi».
E a chi le fa notare che ci ha messo un bel po’ di tempo a maturare un disco, oltre agli impegni come batterista per altri artisti, risponde chiaramente: «Non condivido il pensiero di molti colleghi, soprattutto in ambito jazz, di registrare subito un disco, addirittura senza prove o comunque dopo poco tempo. Nel 2018 avevo appena iniziato a scrivere e a percepire quel bagliore di esigenza di dar voce alle varie idee che mi passavano per la testa (da piccoli frammenti strumentali a canzoni vere e proprie). Nerovivo ne è la proiezione, il risultato umile e totalmente sincero».
Definisce il disco un “prodotto” contaminato da tutti i suoi ascolti più svariati: dal rock, al pop, all’elettronica e a un leggero accenno di jazz e improvvisazione, ma è soprattutto orgogliosa che esca un lato diverso della sua esistenza, soprattutto per chi l’ha sempre sentita solamente dietro alla batteria.
E ora la scopre come voce efficacissima e particolare.
«Ho sempre cantato fin da piccola» ci racconta. «Mia madre era una cantante (fortissima) e mi è sempre piaciuto farlo. Poi, si sa, gli anni dell’adolescenza portano sempre grandi imbarazzi e insicurezze e l’ho accantonato. Con la mia vecchia band piemontese Rumor, avevo ricominciato a fare qualche coro, ma sempre con estrema paura. Poi mi sono fatta forza, ho avuto modo di sperimentare e tirare fuori la voce che avevo nascosto per anni. Cantare mi piace, tanto, me ne sto rendendo sempre più conto e ormai posso definirmi, con estrema umiltà, anche una cantante».
Non a caso le viene chiesto di cantare anche da altri artisti con cui collabora, come nei già citati Emong, nel progetto This Woman’s Work di Maria Pia De Vito, nei Fearless Five di Enrico Rava, o con Miriam Fornari.
«Tra l’altro ho fondato una nuova band romana di matrice rock, i COME ON, DIE, nella quale suono e canto per la maggior parte del tempo. Ormai non riesco ad escludere il canto dalle mie composizione e voce/batteria sono un ottimo connubio».
Quando le chiedo cosa ha rappresentato per la sua maturazione l’esperienza a fianco di Dee Dee Bridgewater o Enrico Rava, risponde con grande franchezza.
«Essere al fianco di colossi come Dee Dee ed Enrico, così come con Maria Pia De Vito è un costante regalo: sono lezioni di vita continue. Suonarci insieme poi è ancora più prezioso: stiamo parlando di due giganti, che hanno suonato con i più grandi di sempre e il mondo conosce la loro grandezza, sia musicale che di spirito. Ma sono anche sempre pronti entrambi a mettersi in gioco e dar fiducia e voce a musicisti molto più giovani e con meno esperienza. Mi danno piena libertà, c’è dialogo, non ci sono paletti, ma solamente tanta empatia e condivisione sincera. Provo estrema gratitudine, ogni giorno, per lo spazio che hanno deciso di darmi, mai scontato. Sono proprio fortunata!»
Anche la collaborazione con Francesca Michielin, cantante molto promettente e famosa in ambito pop, ha contribuito alla sua crescita.
«Qui il mondo è totalmente diverso. Francesca è mia coetanea e condividiamo gli stessi studi jazz in conservatorio. Abbiamo ascolti musicali simili, ma due vite piuttosto differenti. Sono contenta che le nostre strade si siano incrociate e che abbia deciso di coinvolgermi nel suo tour, mi trasmette sempre tanta stima» ci dice Evita, che aggiunge «durante un suo concerto ha deciso di farmi cantare una canzone di Jeff Buckley insieme a lei ed è stato un momento molto intimo e bello».
Proviamo anche a chiederle come vede, dalla sua posizione privilegiata, gli sviluppi del jazz europeo oggi e la risposta è, anche qui, sincera e riflessiva.
«Spesso vedere un pubblico giovane è assai raro: credo che parte del problema sia a monte per la mancanza di agevolazioni da parte degli eventi stessi (biglietti a prezzi alti, ridotti inesistenti), ma temo d’altra parte che a volte manchino proprio curiosità, interesse e partecipazione. Sostenere la scena, soprattutto quella indipendente, dovrebbe essere una causa di cui tutti dovremmo preoccuparci. Esserci è importante».
E tiene a sottolineare l’importanza dell’ascolto: «il dialogo reciproco a fine concerto è (quasi) sempre una cosa molto positiva a cui tengo particolarmente. Sono una musicista curiosa che ha imparato tanto ascoltando gli altri, si apprendono continuamente tanti spunti da mettere poi nel bagaglio personale. Mi piacerebbe ci fossero più comunità, più sostegno, più dialogo e meno competizione» ci confessa. «Negli anni mi sono allontanata da determinati giri e mi sono circondata di persone, musicisti che hanno voglia di fare e sentono il costante bisogno di produrre, conoscere cose nuove e sono uno stimolo per me assai prezioso».
Conoscere cose nuove anche per artiste giovani e connesse, non è mai facile, data la velocità della produzione e la sua continua crescita. «Avendo tanti amici italiani trasferiti in Olanda» ci dice «mi sono abbastanza interessata a quel mondo, jazz e sperimentale, e ci sono artisti molto interessanti. Uno dei miei dischi preferiti è Perselì di Fuensanta, Jose Soares e Alistair Payne. Vedo tanti soggetti che hanno molto da dire e stanno costruendo un immaginario molto definito e “identitario” che apprezzo particolarmente.
Mi riferisco principalmente alla musica, ma amo e mi circondo di persone che lavorano nell’arte in generale. La lista è lunga e parte proprio dai miei amici più stretti, per citarne alcuni: Miriam e Ruggero Fornari, Orelle, Francesca Palamidessi, CYMA, Anton Sconosciuto, Kostja, Lepre, Beatrice Sberna, Matteo Paggi, Agnese Zingaretti per quanto riguarda la fotografia e il videomaking».
Con degli orizzonti musicali così vasti, è naturale farsi venire la curiosità: ma cosa ascolta Evita Polidoro quando non sta lavorando?
«Vado a periodi: oggi stavo ascoltando l’ultimo disco dei californiani Duster, ma negli ultimi mesi mi sono concentrata molto su tutta la “nuova” scena post punk, new wave inglese/irlandese (Fontaines DC, Idles, King Krule, Shame, Black Midi, Squid, Gilla Band) per poi spostarmi all’elettronica ambient (Tim Hecker, William Basinski, Stars of the Lid, Robert Lippok) a quella più sperimentale (Mount Kimbie, FujI||||ta, Kali Malone, James Blake, Aya, Marina Herlop)».
Non molto jazz, facciamo notare… «Di jazz ne sto ascoltando veramente poco, in effetti… ultimamente mi sono imbattuta nel disco Julie Is Her Name di Julie London che mi ha rubato il cuore e sto, ovviamente, approfondendo la discografia di Rava, piena di capolavori».
Se gli ascolti e i dischi preferiti dell’anno scorso – cita King Krule, Slauson Malone, ma anche gli italiani McCorman – sembrano lontani dal jazz, non lo è però il sogno che affida a questa intervista.
«Il mio grande sogno è di suonare in big band e mi porta ad ascoltare e commuovermi con le grandi orchestre di Count Basie e Duke Ellington».
Perché in fondo le classificazioni di genere sono qualcosa che appartiene al passato e le artiste delle nuove generazioni sono felicemente libere di esprimersi seguendo le traiettorie più variegate. Quando questo succede con il talento e l’umanità di Evita Polidoro, l’idea che il jazz appartenga all’oggi e al domani e non solo al passato diventa una coinvolgente certezza.