Le avventure elettriche di Drive! 

Cinque storici pezzi per tastiera per scoprire Drive!, il nuovo progetto del pianista Giovanni Guidi insieme al bassista Joe Rehmer e al batterista Federico Scettri: 

Drive! Foto Paolo Soriani
Foto Paolo Soriani
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jazz

Il nome Drive! segna il nuovo progetto collettivo del pianista Giovanni Guidi insieme al bassista Joe Rehmer e al batterista Federico Scettri.

Sono nomi familiari agli appassionati di jazz italiani e europei, ma le sonorità di questa avventura – che esce su disco Auand e suona al festival NovaraJazz (inaugurato la scorsa settimana con la residenza di ImproveU) giovedì 1 giugno – sono tutt’altro che scontate, perché sono costruite principalmente con strumenti elettrici/elettronici (spesso dalla grana ruvida) e dalla spontaneità della creazione collettiva istantanea.

Piano elettrico, tastiere, suoni gommosi e graffianti (su cui ha lavorato Niccolò Tramontana), tuffi incoscienti in un iperspazio magmatico e avventuroso in cui riecheggiano bagliori del jazz elettrico dei primi anni Settanta, ma anche le schegge roventi dell’elettronica a seguire.

Un po’ il segno dei tempi, quello della riscoperta di sonorità elettriche e elettroniche più o meno vintage, ma l’originalità del disco e della band sta in una imprevedibile organicità (perdonerete l’apparente ossimoro) che afferra l’ascoltatore e lo conduce verso direzioni inattese e fulminanti – praticamente quasi tutti i pezzi del disco sono attorno ai tre minuti.

In esclusiva per "il giornale della musica" abbiamo chiesto a Giovanni Guidi e Joe Rehmer di scegliere 5 pezzi storici caratterizzati da tastiere che li hanno influenzati!

Drive! Giovanni Guidi Joe Rehmer

 

1. Blind Faith, "Presence of the Lord" (da Blind Faith, 1969)

GIOVANNI GUIDI: «Intorno ai quindici anni il mio mito era Stevie Winwood. Questo disco l’ho ascoltato centinaia di volte e ognuna di queste quando arrivava questo brano chiudevo gli occhi pensavo di trovarmi di fronte a un organo e un microfono e sognavo di cantare questa canzone al mio primo amore adolescenziale. Poi arrivava il solo di Eric Clapton e mi sentivo sul palco di un concerto e degli anni Settanta».

2. Miles Davis, "Pharaoh's Dance" (da Bitches Brew, 1970)

 JOE REHMER: «Quando ero ragazzino avevo comprato Bitches Brew, ma mi ha colpito davvero molto solo dopo un paio di anni. Avevo 17 anni e una sera tardi l’ho messo su ascoltandolo con un paio di cuffie. Mi sentivo circondato da queste onde di tastiere, stavo nuotando in mezzo alla musica… mi ha cambiato la vita!».

3. Miles Davis, "Call It Anyhing", (da Isle Of White, August 29th, 1970)

 GIOVANNI GUIDI: «Qualche anno dopo i Blind Faith ho scoperto che di fronte a migliaia di persone si poteva suonare anche questa musica. Due dei più grandi pianisti di sempre alla corte di Miles Davis a creare quel magma in cui le sue note si inserivano in maniera inevitabile. La musica è stupenda ma ammetto che ero e sono altrettanto affascinato dell’abbigliamento di tutti. E poi mi piaceva tanto Jarrett, come mi piace sempre, che suonava quegli strumenti per una proposta che non aveva potuto rifiutare, aprendo però una strada che secondo me è ancora tutta da percorrere». 

4. Herbie Hancock, "Butterfly", (da Thrust, 1974)

JOE REHMER: «Credo che un pezzo così non abbia nemmeno bisogno di essere commentato...».

5. Aphex Twin, "Jynweythek Ylow" (da Drukqs, 2001)

GIOVANNI GUIDI: «Questo è il pezzo di apertura di Drukqs. È incredibile come questo musicista fosse così "moderno" già venti o trent'anni fa. Il brano potrebbe essere stato suonato dal vivo su un pianoforte preparato o soltanto campionato da un pianoforte acustico e poi riprogrammato con delle macchine (sono anche evidenti le influenze della musica di John Cage). Quello che ad ogni modo mi emoziona è la costante ricerca di piccole ed infinite variazioni nella scelta dei suoni (non oso immaginare la quantità di ore passate in studio...)».

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