L’avvento di Internet ha dato la possibilità a (quasi) tutti di conoscere, o comunque potersi avvicinare, alla conoscenza mirata di (quasi) ogni argomento. Perché Internet è il più grande giacimento culturale che il genere umano abbia mai avuto a disposizione.
C’è però un curioso effetto secondario della Rete che per ora non sappiamo controllare: quello di far apparire sullo stesso piano e in una sorta di allucinato presente perpetuo ogni fatto o biografia, scalzando il delicato taglio diacronico che un tempo aveva formato generazioni di storici, e che ora è appannaggio di un numero ancora minore di specialisti.
Se, in epoca pre Internet, si fosse chiesto a un appassionato di musiche afroamericane di immaginare una triade primigenia del jazz, un gran numero di risposte avrebbero trovato sponda comune su questo triangolo di nomi: Louis Armstrong, Jelly Roll Morton, Sidney Bechet.
Il primo è ancor oggi sinonimo di jazz, nel bene e nel male del luogo comune, il secondo è oggetto di periodiche, effimere riscoperte, sul terzo è calato un buio più o meno fitto, una memoria selettiva che lavora con fugaci intermittenze.
Ben venga allora la riscoperta di uno dei pionieri del sax soprano e del clarinetto, uno dei primissimi “Americans in Europe”, il detentore di un’estetica forte e di un suono personalizzato inimitabile e a lungo imitato, specie nel sensualissimo vibrato. L'occasione, dalle nostre parti, ce la fornisce la pubblicazione in italiano di Treat Her Gentle. An Autobiography per i tipi di Quodlibet, reso in italiano come Suona con gentilezza. La mia storia, nella traduzione di Giuseppe Lucchesini.
Autobiografia, si noti, non scritta, ma dettata al registratore della giornalista e scrittrice Joan Reid. Spesso controversa, sapientemente imprecisa, ma utilissima, in controluce, per capire un’epoca e la prima concezione “africanistica” del jazz.
Per la necessaria contestualizzazione della cruciale figura di Sidney Bechet si sono messi al lavoro qui alcuni dei più validi studiosi della materia in Italia: Claudio Sessa, Marcello Lorrai, Stefano Zenni; un un bell’intervento vede anche la firma di Roberto Ottaviano, sassofonista eccelso nel maneggiare quel soprano che caratterizzò buona parte delle note di Bechet. S
Sessa mette in luce come «l'insopprimibile spirito vagabondo» del grande Bechet da New Orleans non gli riservò la sorte iniziale di celebrità dei concittadini Armstrong, Morton, Joe “King” Oliver, e di quanto abbiano pesato le lunghe permanenze di Bechet in Europa (dove scoprì e adottò il soprano) tra il 1919, a prima guerra mondiale appena finita, e il 1931.
Un “cuore discografico” d’attività lo ebbe tra il 1938 e il 1949: con sedute in studio assai meno “tradizionalistiche” di quanto si è voluto credere e raccontare, per pigrizia critica.
Peraltro nel 1941 Bechet fu protagonista di una clamorosa sovraincisione pionieristica di sei diversi strumenti in totale solitudine, e nel ’49 trionfò al Festival Jazz di Parigi, (sua nuova patria accogliente, ormai) mettendo in ombra Charlie “Bird “Parker e Miles Davis. Fu una figura umana «strabordante, sensitiva, passionale», ma decisiva nella sua poetica, in bilico vertiginoso tra ricordi di musica lirica come si suonava a New Orleans e travolgente forza d’urto del “nuovo” jazz che rammentava carsicamente l’Africa.
Una figura tutta da riscoprire ancora oggi: lo hanno già fatto, nei decenni del jazz a seguire, Johnny Hodges e John Coltrane, Steve Lacy e Evan Parker.
Ora (ri)tocca a noi.