La musica nello spazio di Borromini

Il musicologo Luca Della Libera presenta la messa a tre cori di Orazio Benevolo, che fu forse composta per la chiesa di Sant'Ivo alla Sapienza (sarà eseguita il 17 marzo)

Missa Ecce Sacerdos magno di Orazio Benevolo
La pianta di Sant'Ivo alla Sapienza
Articolo
classica

Nell’ambito delle celebrazioni dei 350 anni dalla morte di Francesco Borromini – promosse da Accademia di San Luca, Musei Vaticani, Facoltà di Architettura dell’Università La Sapienza di Roma, Accademia delle Belle Arti di Roma e MAXXI - Museo nazionale delle Arti del XXI secolo – si terrà nella chiesa di Sant’Ivo alla Sapienza, capolavoro borrominiano, un concerto di eccezione, il 17 marzo: la messa a tre cori Missa Ecce Sacerdos magnus di Orazio Benevolo interpretata dallo Schola Romana Ensemble diretto da Stefano Sabene. La presenza dei tre cori suggerisce che la messa sia stata composta proprio per Sant’Ivo, l’unica chiesa romana ad avere tre cantorie.

Il musicologo Luca Della Libera, studioso del Seicento musicale romano che ha fatto ricerche archivistiche sulla composizione, apre uno squarcio di luce su questa ipotesi.

Qual è la storia della partitura della Messa di Benevolo?

«La Messa di Benevolo è stata composta nel 1661, ed è una delle pochissime messe romane scritte per questo organico. Nelle mie ricerche archivistiche, condotte presso l'Archivio di Stato, ho trovato alcuni documenti inediti, di tipo amministrativo, tra i quali delle ricevute autografe di Benevolo, che fu pagato nel 1661 ma anche negli anni successivi, per dirigere la musica in occasione della solenne festa di Sant’Ivo. La chiesa, che fu consacrata nel 1660 dal Papa, non aveva una sua cappella musicale fissa, e quindi in queste occasione venivano invitati musicisti provenienti da altre istituzioni musicali romane, in particolare dalla Cappella Pontificia. In quel periodo Benevolo era maestro della Cappella Giulia, in Vaticano. I documenti fanno esplicito riferimento a "tre cori", che corrispondono alle tre cantorie presenti nella Chiesa».

Si tratta di un ritrovamento o la partitura era nota?

«La partitura era già nota ed era stata pubblicata nell'opera omnia di Benevolo, circa una cinquantina d'anni fa».

Che fosse stata composta per la consacrazione di Sant’Ivo è storicamente provato o un'ipotesi?

«Non abbiamo certezza che proprio questa messa sia stata eseguita in quell'occasione, ma certamente la sua organizzazione in tre cori è insolita – le messe a più cori sono quasi sempre a due, quattro, otto cori – ed è davvero un perfetto prototipo per lo spazio di Borromini: la chiesa è l'unica a Roma ad avere tre cantorie».

C'è una corrispondenza nella partitura con il dato architettonico?

«Questo concerto vuole sottolineare come il compositore fosse consapevole e rispettoso del particolare spazio architettonico. Infatti, ciascuno dei tre cori è in qualche misura "autonomo", usando un termine architettonico "autoportante": si tratta di tre blocchi sonori molto compatti. La scrittura e lo stile musicale sono molto semplici da un punto di vista armonico. Solo ascoltando la Messa con i cantori collocati nelle cantorie si percepisce chiaramente questo dato: uno stile più complesso, armonicamente avanzato non avrebbe funzionato così bene, e il risultato sarebbe stato insoddisfacente».

Cosa mi può dire della “teatralità spaziale” che scoprirà l'ascoltatore di questa interpretazione... architettonicamente filologica?

«L'ascoltatore di oggi può appunto rendersi conto di quanto fosse importante il legame tra organizzazione dello spazio e del suono e di come il capolavoro borrominiano abbia rappresentato un luogo di grandissima suggestione non solo per gli occhi, ma anche per le orecchie di chi partecipava a queste grandi cerimonie. Il concerto vuole porre all'attenzione del pubblico di oggi il recupero di questa dimensione, che normalmente non è presa in considerazione anche nei concerti di musica sacra. La suggestione acustica e le modalità di ascolto in un luogo così carico di simboli come Sant'Ivo alla Sapienza non erano certamente estranee alla sensibilità di Borromini».

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Articolo in collaborazione con Fondazione Busoni

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