Gianni Lenoci è morto, a 56 anni, il 30 settembre. Pugliese di Monopoli, nato nel 1963, Lenoci era pianista, compositore e didatta apprezzatissimo, docente al Conservatorio "Nino Rota" di Monopoli. Abbiamo chiesto un ricordo di Lenoci a Roberto Ottaviano, amico e collega.
Alcune dipartite risuonano come un monito. La scia, la riflessione, il vuoto, l’assenza assordante è simbolica e interrogativa: «Questo il mio lascito, che ne farete ?».
Gianni Lenoci scompare lasciando un buco nero che inghiotte, non solo chi lo ha amato, lo ha seguito, lavorato con lui, ma anche e soprattutto chi lo conosceva appena o non lo conosceva affatto. Ridurre Gianni allo strumentista e compositore sarebbe come inserire i tre tomi de I demoni di H. Von Doderer sullo scaffale dei manuali sulle scale e delle storielline del jazz.
Gianni era innanzitutto uno straordinario “pensatore”, poteva suonare il piano, fumare la pipa, usare un flautino e una sgangherata tastierina elettronica, oppure semplicemente osservare i passanti con l’aria dinoccolata che lo contraddistingueva, ma la radice era lì sempre ben piantata, una sorta di materialismo poetico che anche quando rideva non sbracava mai.
«Gianni era innanzitutto uno straordinario “pensatore”».
Ho sempre condiviso con lui l’idea che ogni esperienza passa attraverso chi decidiamo di essere, e non siamo costretti a vivere soccombendo al fatto, come un marchio, che veniamo da qualche parte. In questo il suo rifiuto per l’oleografia del Sud, e del Mediterraneo, con tutta la sua anedottica e una sceneggiatura prevedibile, è stato un riferimento. Stesso rifiuto dello stereotipo che però riservava, ad esempio, all’assimilazione della tradizione del jazz attraverso una sterile e purista Lectio Restituta, così come alle più recenti aderenze alla cosiddetta “Nuova Scuola Newyorchese”.
«Vedo la musica come una danza e non come un linguaggio…».
«Vedo la musica come una danza e non come un linguaggio…» diceva spesso, credo perché il suo passare attraverso Monk, Lacy, Feldman, Cage, la libera improvvisazione, non aveva nulla a che fare con l’interpretazione, bensì con lo spirito di un corpo libero che volteggia dentro e fuori le suggestioni. Non che non avesse gli strumenti per controllare la materia, solo che al contrario di una estetica dominante che vuole porre questa pratica come cannibalistica, Gianni usava la tecnica e le competenze specifiche, che erano altissime, per definire dei perimetri con discrezione, senza mai cedere il terreno all’esercizio circense.
Non meraviglia lo stupore suscitato dall’onda di affetto e ricordi alla sua scomparsa da parte di chi, nel piccolo mondo come quello del jazz, non lo conosceva. Certamente un mondo il quale per volontà e per caso non gli ha mai prestato l’attenzione dovuta, anche se lui era più interessato ad altri generi di riconoscimento e più che ai riflettori era incuriosito a scovare le contraddizioni e tenersene lontano.
Proprio per questa ragione oggi, insieme a piangerne la scomparsa prematura, tocca seriamente interrogarsi sulle molte vie indicate da Gianni Lenoci, e riproposte in un epoca di grande anestesia intellettuale con integrità e tenacia, un fardello che chi di noi vorrà e saprà farsene carico dovrà portare oltre e altrove, sempre con profonda gratitudine nei suoi confronti.