La metà di un cantautore

Sette canzoni per ricordare Giorgio Calabrese

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Siamo solo a marzo, ma è ormai probabile che il 2016 sarà ricordato come l’annus horribilis per le morti del mondo della musica. Una coincidenza che, salvo casi di morti tristemente premature (come quella di Gianmaria Testa), ci ricorda ahimé come la generazione egemone nei nostri gusti musicali ancora oggi – quella nata fra gli anni trenta e l’immediato secondo dopoguerra – sia ormai in età avanzata.

La morte di Giorgio Calabrese ha smosso – in proporzione – meno interesse di quella di altri illustri colleghi: del resto, anche i social devono avere un limite, e non si può passare la giornata a commemorare questo e quello.

Calabrese, tuttavia, è stato un gigante, il cui contributo storico alle vicende artistiche e storiche della canzone italiana non può essere in alcun modo sminuito e che, anzi, meriterebbe di essere ricordato e valorizzato al pari di quegli amici e colleghi genovesi con cui reinventò la parola in musica alla fine degli anni cinquanta: lo ha (sempre) fatto il Club Tenco, che gli ha assegnato il suo Premio nel 1981. Lo ha fatto Zibba, che gli ha dedicato un disco un paio di anni fa (E sottolineo se, come uno dei suoi versi più geniali), lo hanno fatto naturalmente altri, negli anni. Ci proviamo noi, in breve.

Nato nel 1929 a Genova, Calabrese lavora all’inizio degli anni cinquanta come agente marittimo al porto – circostanza non secondaria che lo mette nella possibilità di accedere a molte novità discografiche fresche d’importanza. Alla fine del decennio è a Milano, in mezzo a quell’irripetibile gruppo di talenti raccolto intorno alla neonata Ricordi (l’etichetta discografica debutta infatti nel 1958, nel centocinquantesimo anniversario della Casa).

Calabrese scrive per il primo rock and roll (anche con lo pseudonimo Screwball), poi per i primi cantautori (i confini fra i due mondi non sono, in quel momento, così marcati), e lega la sua prima fama “artistica” soprattutto al sodalizio con Umberto Bindi. Di tre anni più giovane di lui, Bindi aveva cominciato come autore per altri, trovando poi il successo con un brano su testo proprio di Calabrese, inciso dal crooner Don Marino Barreto Jr.: la melancolica “Arrivederci”. Bindi incide la sua versione, e avvia con essa la sua carriera di “cantautore” (il termine sarà inventato solo un anno dopo).

Un ruolo nel grande successo di “Arrivederci” hanno sicuramente le parole di Calabrese, che descrivono con tono empatico ma secco, asciutto, mai lacrimoso o patetico, la fine di una storia d’amore. È – per il tono, e per la voce di Bindi – una rivoluzione della canzone in italiano.
La coppia – nel momento in cui vengono lanciati i primi cantautori – mostra una rara comunità d’intenti artistici, che è ben espressa dai grandi classici del catalogo bindiano: “Odio”, “Nuvola per due”, “Girotondo per i grandi”, “Il nostro concerto”… Proprio come un cantautore, in fondo, ma diviso in due.

L’elenco di canzoni scritte da Calabrese negli anni successivi è oltremodo ampio, e include alcuni classici immortali della canzone italiana: “E se domani”, traduzioni di Aznavour e Tom Jobim, brani in genovese, pezzi per Mina, per la Vanoni… Ecco sette brani per ricordarlo, e magari riscoprirlo.

1) "Arrivederci", nella versione di Don Marino Barreto Jr.



2) L'altro grande classico del repertorio di Bindi, "Il nostro concerto".



3) Un finto portoghese-brasiliano (che è in realtà genovese) scritto per Bruno Lauzi (autore della musica con Gian Piero Reverberi).



4) Una traduzione da Jobim, cantata fra gli altri da Mina e Ivano Fossati: "La pioggia di marzo"...



5) E una per Aznavour, cantata da lui stesso.



6) La celeberrima "E se domani", nella prima versione di Gene Pitney (il pezzo divenne poi un classico del repertorio di Mina).



7) Un Bindi tardo, anno 1989, ma da riscoprire.

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