JazzMadrid è il tradizionale appuntamento di autunno che riempie di appuntamenti jazzistici il mese di novembre nella capitale spagnola. Quest’anno non ha fatto eccezione, nonostante il coronavirus: in Spagna, infatti, i teatri che possono garantire il distanziamento sono rimasti aperti. Il festival ha puntato su artisti nazionali, per ragioni di sostegno alla scena e per le prevedibili difficoltà di circolazione, nel pieno della pandemia di Covid-19.
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L'occasione era dunque propizia per una chiacchierata con Luis Martín, critico musicale e direttore artistico da molti anni di JazzMadrid. Lo abbiamo incontrato poco prima della fine del festival.
JazzMadrid 2020 si tiene in una particolare situazione di emergenza sanitaria nell’andamento della pandemia in una grande città come Madrid. Come sta andando il Festival?
«Il festival si sta svolgendo in maniera assolutamente normale, ovviamente con le restrizioni della capacità di un teatro che sono state adottate, a seconda dei casi, intorno al 50% o del 33%. La cultura è al momento molto sicura, in tutto il territorio nazionale ci sono spettacoli di teatro, concerti, proiezioni di film con tutte le norme di sicurezza: tutto ciò senza che si verifichi nessun caso di contagio».
«La cultura è al momento molto sicura, in tutto il territorio nazionale ci sono spettacoli di teatro, concerti, proiezioni di film con tutte le norme di sicurezza: tutto ciò senza che si verifichi nessun caso di contagio».
Quali sono stati problemi organizzativi a fronte della situazione che si è creata quest’anno?
«All’inizio ci siamo trovati di fronte a tutte quelle difficoltà che, per organizzare un festival delle dimensioni di JazzMadrid, non si può programmare da un giorno all’altro. Il Covid ci ha costretto a rinunciare alla partecipazione di figure internazionali e ai progetti a cui avevamo iniziato a lavorare fin dal mese di gennaio di quest’anno. Fin dall’inizio, ci siamo resi conto che in questa stagione di JazzMadrid non potevamo contare sulla collaborazione di artisti stranieri, salvo alcuni accordi precedenti che erano stati presi con ambasciate o istituti di cultura di altri paesi».
Di qui, quindi l’idea si sviluppare una programmazione integralmente autoctona?
«Per l’appunto, ci siamo messi subito al lavoro ad analizzare tutte le proposte del jazz del nostro Paese. Se questa è stata una priorità, legata a una questione pratica, nello stesso tempo è emersa anche l’intenzione di marcare una linea etica, sollecitati dal Comune di Madrid, per attenuare i danni economici che la pandemia ha provocato e continua a provocare alla nostra comunità di musicisti».
Credo quindi che questa sia sicuramente un’opportunità speciale per presentare un panorama del mondo musicale jazzistico spagnolo e della città.
«Sicuramente questa è anche un’opportunità per valutare lo stato di salute del nostro jazz anche se, ogni caso, JazzMadrid è sempre stata una vetrina che ha avuto un 33-35% di programmazione locale: era una buona vetrina, però, chiaramente, adesso lo è ancora di più visto che andiamo praticamente al 100%!»
«Lo stato di salute del nostro jazz è sicuramente buono, direi straordinario».
«Per la verità abbiamo verificato, già da tempo, guardando anche tutta la programmazione passata di JazzMadrid, che lo stato di salute del nostro jazz è sicuramente buono, direi straordinario: il livello dei nostri musicisti sia a livello tecnico, che creativo, è sicuramente altissimo. Possiamo sicuramente dire che nel panorama del nostro jazz c’è un ventaglio di contenuti estremamente vari, che va incontro ai diversi gusti degli appassionati. C’è un forte desiderio da parte dei nostri professionisti di affermarsi e di rivendicare un jazz che abbia una proiezione internazionale. È questo un aspetto che, modestamente, credo, JazzMadrid abbia contribuito a rafforzare, avendo sempre dato uno spazio a tutti questi musicisti, con un appuntamento periodico».
C’è un linguaggio che è specifico e che si è affermato in maniera prepotente nel jazz spagnolo: quello del cosiddetto "jazz flamenco".
«Per l’appunto, perché se circa 15/20 fa anni era abbastanza frequente che il jazz che si produceva qui fosse una riproduzione mimetica dei modelli statunitensi, fortunatamente, da quasi 15 anni a questa parte, si è sviluppata una realtà culturale molto diversa, con caratteristiche molto proprie. Nel cartellone di quest’anno possiamo avere sia una specie di be bop rinnovato, una sorta di jazz "avanzato", sia, in maniera molto ampia, un jazz con colorazione flamenca, che è realmente il nostro tratto distintivo».
Quali sono le sue caratteristiche linguistiche?
«Sicuramente, per me, l’approccio di questi musicisti, legato alla creazione di un jazz di colorazione afflamencada, è in qualche modo paragonabile a quello di Paolo Fresu, quando rielabora elementi del patrimonio popolare italiano. Possiamo considerarlo sicuramente il nostro tratto distintivo, la nostra "marca España", una colorazione che emerge nello stile di musicisti come Javier Colina, Maria Toro, Daneil Garcia, Dorantes, Enriquito, creando una fusione nella quale non si sa dove cominci il flamenco dove termini il jazz».
È una storia le cui origini risalgono a parecchio tempo fa...
«Questa fusione di jazz e flamenco cominciò nell’anno 1967, con un artista che era in programma quest’anno ma che purtroppo è venuto a mancare improvvisamente: parlo del sassofonista Pedro Iturralde che il 1° novembre scorso ci ha lasciati, uno dei musicisti simbolo del jazz spagnolo e, in particolare, proprio della tendenza di cui stiamo parlando. Iturralde in quell’anno registrò, assieme a un giovane Paco de Lucia – che per inciso allora si chiamava Paco Algesiras – due volumi di un album che si intitolava per l’appunto Jazz Flamenco. Fu un’assoluta novità; una novità che richiamò l’attenzione di Joachim-Ernst Berendt. Il noto critico tedesco li volle al festival jazz di Berlino, un festival nel cui cartellone stavano nomi come Miles Davis, Sara Vaughan, Thelonious Monk, Baden Powell. Da allora questa fusione musicale dei due linguaggi, ha vissuto un’evoluzione straordinaria. Credo che il primo che realmente lo fece evolvere fu Jorge Pardo, con il flauto e con il sax. Un’evoluzione nella quale ormai non si notano più i punti di sutura tra jazz e flamenco: creando un linguaggio dove spesso non si sa se è un flamenco che va verso la libertà del jazz o se si tratta di un jazz con aria di flamenco».
Un pianista simbolo del jazz flamenco come Chano Dominguez si presenta con una cantante come Martirio, icona della movida madrilena degli anni Ottanta, con un progetto sicuramente di grande interesse ma non credi che Dominguez, in questa vetrina, avrebbe meritato un recital per piano solo?
«Mi sembra più importante che si presenti con Martirio, proprio per come si presentano. Perché in questo tipo di spettacoli c’è un momento in cui Martirio riposa e Chano Dominguez di esprime in solo, per cui nella stessa serata ci sono come due concerti».
Quali sono gli aspetti più innovatori, sperimentali, che si avvicinano ai nuovi linguaggi del programma?
«Ce ne sono molti ma vorrei però segnalare tra i gruppi emergenti, quello di Roberto Nieva, un altosassofonista che, con il suo quintetto, sa guardare al jazz del futuro, con un’interessate uso di alcune basi nello stilemi un drum&bass newyorkese; così i Machetazo, anch’essi con un timbro che si avvicina a quello dell’avanguardia; il sassofonista Ernesto Aurignac, inoltre, con il suo nonetto, ci porta uno dei progetti più sperimentali che si siano fatti in questo paese; voglio citare poi l’importante contributo di un grande veterano di tanta musica, Suso Saiz, un veterano, che viene con un progetto che si chiama “Ambient trio”, con la sua chitarra, con uno stile che si avvicina abbastanza con quello di Robert Fripp».
In una città come Madrid esistono molte realtà musicali, legate al particolare melting pot della città, con le sue diverse comunità straniere. Non pensi che sarebbe interessante vedere rappresentate queste tendenze e questi aspetti di modi musicali, che spesso creano nuove ed originali fusioni musicali?
«Come ideologo, so di cosa mi stai parlando, ma passare alla pratica entra in gioco il filtro e io pretendo che si compiano standard di qualità che considero imprescindibili. Se parliamo, ad esempio, di gruppi che avvicinano la musica araba al jazz o viceversa, abbiamo avuto in passato il contributo di tre grandi liutisti del mondo arabo a livello internazionale, come Rabih Abu-Jalil, Anouar Brahem y Dhafer Youssef. Certo, potremmo trovare molte cose tra noi, però preferisco che abbiano un’indiscutibile qualità. Si può, sì, fare molto, ma bisogna andare con i piedi di piombo, non posso certo ignorare questi aspetti, anche se so bene di cosa stai parlando: Jorge Pardo ad esempio, in passato, ebbe un’esperienza interessantissima con musicisti gnawa del Sahel e anche con musicisti persiani. Ho sempre molta fiducia: la vita culturale può essere molto lunga. Tutto ciò di cui mi parli è sicuramente nella mia testa e, nel futuro, potrà entrare a far parte di nuovi progetti, ma solo gradualmente».