Jarvis Cocker & Chilly Gonzales
Room 29
Deutsche Grammophon
Dei tanti aspetti sorprendenti di questo lavoro, colpisce più di altri il nome dell’editore: Deutsche Grammophon, sinonimo di musica classica. In verità, da qualche tempo, l’etichetta discografica tedesca sconfina in ambiti insoliti, ad esempio con la serie Recomposed (in cui artisti di estrazione elettronica quali Carl Craig e Matthew Herbert rielaborano partiture sinfoniche), mentre è imminente l’album Endless dei Tale Of Us, duo techno di milanesi nati oltreoceano.
Per certi versi, paradossalmente, Room 29 è invece un’opera filologicamente coerente con la natura del marchio che porta impresso: in fondo si tratta di un “ciclo di canzoni” alla maniera di Schubert, benché lo spunto narrativo sia sfacciatamente “pop”. La stanza del titolo, infatti, è una delle più ambite fra le 63 dell’hotel situato al numero civico 8221 del Sunset Boulevard: ricettacolo delle stelle di Hollywood (Jean Harlow, Elizabeth Taylor, Judy Garland, Marylin Monroe, James Dean, Dennis Hopper, John Belushi, Johnny Depp) o del rock (Led Zeppelin, Jim Morrison), sovente protagoniste di aneddoti turbolenti. Là aveva dimorato una ventina di anni or sono Jarvis Cocker, in tournée con i Pulp: l’espressione più aristocratica e glam del Britpop. Esperienza ripetuta nel 2012, in occasione dell’estemporanea rimpatriata del gruppo, quando alloggiò appunto nella camera 29, scoprendola dotata di un pianoforte (che leggenda vuole fosse appartenuto a Clara Clemens, figlia di Mark Twain, cui è dedicata qui una ballata dai toni struggenti e crepuscolari).
Nel frattempo, aveva cominciato a frequentare a Parigi – dove sia lui che Cocker vivevano, e si erano incontrati fortuitamente sul metrò – il pianista e compositore canadese Jason Charles Beck, in arte Chilly Gonzales (che, trasferitosi poi a Colonia, ha ceduto il proprio appartamento all’amico inglese). Concepito in origine come pièce teatrale, il tributo reso dai due allo Chateau Marmont si è tramutato ora in disco: primo per Cocker dai tempi della seconda prova da solista, Further Complications, datata 2009. In un’atmosfera degna del Grand Budapest Hotel di Wes Anderson, corretta però in chiave decadente, prende forma la fisionomia di – parole dell’autore – “un posto interamente edificato su una menzogna, ma quale menzogna!”, impreziosito dalla stanza in questione: “Ambiente confortevole per un esaurimento nervoso”, recita un verso dell’ombroso madrigale che apre e intesta l’album.
Poco oltre spicca “Tearjerker”, delizioso quadretto di dissoluzione: “Lei aspetta in aeroporto / tu sei nella camera d’albergo / con qualcuno che non ti conosce”. E all’epilogo sboccia il melò sublime di “Ice Cream As Main Course”, per dire delle abitudini alimentari del luogo. Ad assecondare la voce del signor Pulp, talvolta rimpiazzata da quella di David Thomson, storico del cinema coinvolto nell’impresa, è in genere il piano di Gonzales, accordato su lunghezze d’onda che rimandano tanto a Satie quanto all’operetta d’inizio Novecento, con misurato supplemento d’archi e citazioni nei crediti per Ryuichi Sakamoto e Gato Barbieri. L’effetto d’insieme è affascinante, nonché gradevolissimo all’ascolto (valga a dimostrarlo la squisita “Salomè”, un po’ in stile ultimo Damon Albarn). E la messinscena dal vivo (in queste settimane ad Amburgo e al Barbican di Londra), potenziata da un corredo audiovisivo che consente agli spettatori d’immergersi nell’habitat del Marmont, dev’essere memorabile.