Ilaria Capalbo, ripartire dalla Svezia

Intervista con la contrabbassista Ilaria Capalbo, di base a Stoccolma

Ilaria Capalbo
Ilaria Capalbo (foto Paolo Soriani)
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jazz

In un’Europa fortemente connessa – lasciamo per un attimo da parte la questione pandemia, che però, vedrete, ha il suo peso – che un’artista trovi le condizioni ideali per far crescere la propria carriera in una nazione diversa dal luogo di origine è circostanza in fondo piuttosto naturale, sebbene di tanto in tanto strattonata, più o meno ideologicamente, dalle opposte narrazioni del nemo propheta in patria o fuga di cervelli vs. “eroismo global”.

Ilaria Capalbo, bassista campana, ha trovato in Svezia il contesto ideale per esplorare le proprie idee e si è affermata rapidamente come una figura in grado di unire freschezza musicale a idee chiare, in particolare con il progetto Karthago, documentato dal disco omonimo uscito per la Bluenord negli scorsi mesi. Ma anche in Italia, dove continua a essere attiva anche all’interno di altri progetti, più di qualche festival si sta accorgendo di lei.

Merito di una fluidità melodica ben assecondata da una scrittura elaborata, ma sempre immediata; merito di una sonorità, allo strumento e nell’impasto di gruppo, dotata di un calore contagioso.

«Ilaria si è fatta conoscere e apprezzare in poco tempo in Svezia» ci racconta Loredana Franza, promoter (Stockholm Women's International Jazz Festival) e manager italiana da tempo attiva in quella nazione «per l’intraprendenza e la qualità dei suoi progetti, ma soprattutto perché si è dimostrata curiosa di scoprire una scena musicale diversa da quella da cui proveniva».

Abbiamo voluto conoscere meglio questa musicista e l’abbiamo incontrata a Brema, durante i giorni di Jazzahead, per un’intervista caratterizzata da una sincera spontaneità. 

Ilaria Capalbo (foto Johan Bergmark)
Ilaria Capalbo (foto Johan Bergmark)

Inizierei la nostra chiacchierata chiedendoti di raccontarci come sei "finita" in Svezia dalla Campania e un po' il tuo percorso di formazione.

«Ho una formazione classica (suono contrabbasso e violoncello) e ho completato gli studi di Jazz al Conservatorio di Salerno dopo due esperienze annuali al Conservatorio di Napoli e Siena Jazz. Sono arrivata a Stoccolma nel 2017 grazie a una borsa di studio Erasmus che ho ricevuto durante il master. Ho trascorso qui un intero anno accademico, al termine del quale sono ritornata a Napoli. Avevo però nel frattempo accumulato molti contatti in Scandinavia ed avevo cominciato a inserirmi sulla scena nazionale, cosa che in ultimo mi ha portato a decidere di trasferirmi in Svezia in modo permanente nel 2019».

In quale tipo di contesto ti sei trovata a Stoccolma, quali relazioni hai costruito e come hai costruito l'organico del progetto Karthago?

«Nonostante la Svezia sia stato un paese il più delle volte ”non conforme” alle restrizioni globali, gli effetti della distanza sociale si sono avvertiti in maniera importante anche qui. Pochi mesi dopo il mio trasferimento è scoppiata la pandemia. Ho coltivato le relazioni esistenti e concentrato gli sforzi sulla composizione, entrando in contatto con degli ambienti trasversali come ad esempio teatro e danza contemporanea, per cui ho scritto su commissione».

«La costruzione dell’organico di Karthago é stata parte di un lungo processo di conoscenza dei musicisti. Con alcuni di loro avevo già avuto modo di suonare in precedenza, con altri invece avevo solamente condiviso qualche parola. Ho ascoltato la loro musica (i componenti di questa band sono anche leader dei propri progetti - interessantissimi e diversissimi tra loro — che vi invito ad ascoltare) e mi sono lasciata guidare dall’intuizione».

«Ne è nata una forte affinità musicale e umana e un mix di personalitá molto interessante. Da bandleader e contrabbassista, sentivo la necessità di collaborare con dei solisti che potessero allo stesso tempo condividere la mia visione e contribuire al progetto con una forte voce personale. Li ho trovati in Thomas Backman (alto e clarinetti), Fredrik Nordström (sax tenore e baritone, flauto alto), Andreas Hourdakis (chitarra) e Fredrik Rundqvist (batteria). Fanno parte del disco anche il trombettista Tobias Wiklund e il trombonista Mats Äleklint».

Come mai questo nome, Karthago?

«Karthago é ispirato in maniera simbolica all’ascesa e alla caduta di Cartagine, cittá-potenza del mediterraneo prima dell’avvento di Roma. Volevo raccontare una storia dal punto di vista dell’“underdog”, della parte che non é stata favorita dalle circostanze nonostante l’enorme valore, un tema che anche a distanza di millenni pare sempre essere attuale. Cartagine fu poi fondata da una regina leggendaria che con la resilienza e la vulnerabilità che la contraddistinguevano fu capace di portare la città al suo apice, e in questo aspetto ne ho visto un messaggio di empowerment e di autenticità e una similitudine con l’essere bandleader. Karthago é anche un disco in cui si sono condensati concetti come distruzione e ricostruzione, che hanno in qualche modo fatto parte della mia esperienza negli ultimi due anni».

Come hai lavorato alla composizione delle musiche del disco?

«Quando ho scritto le composizioni avevo costantemente in mente sia i musicisti che le avrebbero suonate che la storia che volevo si dipanasse. Ho sperimentato con metodi diversi nel processo compositivo e nel disco vi sono sia brani completamente arrangiati (“Belòved” ad esempio) che grandi spazi per l’improvvisazione. Ho lavorato alla musica durante il lockdown, con un piano preso in prestito, nella casa in cui mi ero trasferita una settimana prima dell’emergenza sanitaria globale. Tuttora vivo qui, al confine di una riserva naturale appena fuori città. Con il senno di poi, sono stati dei mesi di solitudine durante i quali ho trovato un metodo e una voce».

Nella tua musica sento una grande freschezza, declinata su modelli anche differenti, da Maria Schneider a una certa scrittura downtown NY dei primi anni 2000, a alcuni modelli di sintesi scandinava tra l'improvvisazione più avventurosa e la formalizzazione compositiva. Ci racconti quali esperienze di ascolto ti hanno ispirata di più?

«Maria Schneider in primis, ma anche il quintetto di Dave Holland, il trio di Carla Bley e la Liberation Orchestra di Charlie Haden. Molta della musica tradizionale svedese, folk e corale. Le release della Blue Note degli ultimi anni come Kendrick Scott Oracle, Brian Blade Fellowship e Bill Frisell. In Europa, Django Bates e Reinier Baas».

Si parla da qualche tempo in modo più urgente (anche dato il periodo complicato della pandemia) di ampliamento del pubblico. Molto jazz, anche fatto da artiste e artisti giovani e anche musicalmente fresco, non sembra riuscire a andare al di fuori dei confini degli appassionati. Un fenomeno non nuovo, ma su cui immagino tu abbia fatto qualche riflessione...

«Questo discorso si può probabilmente inserire in un più generale ambito del problema della fruizione della cultura. Credo che un ampliamento del pubblico non si possa ottenere se non “coltivando” l’interesse di questo pubblico, che spesso ha delle idee molto nebulose quando si parla di sperimentazione o più in generale di novità».

«L’unico strumento per agire in questo senso sul breve termine è l'esposizione al nuovo: un progetto solido difficilmente delude un’audience anche a-specifica. Esistono sicuramente realtà che operano in questo senso (penso a festival e associazioni che ho avuto modo di conoscere), ma questa logica si muove ancora in contrasto con le leggi di mercato: si constata che manca l’interesse spontaneo verso la creatività di nicchia, dunque si vira automaticamente verso forme di gratificazione del pubblico invece di privilegiare interventi che portino a contatto questa creatività di nicchia con molte più persone».

«Questa pratica purtroppo rinforza una vasta conformità rispetto a ciò che “vale la pena ascoltare”. C'è moltissimo da ascoltare invece, e il jazz e le musiche improvvisate godono oggi di un’entusiasmante spinta creativa. É necessario secondo me mantenere alta l’attenzione verso la scoperta di contenuti musicali di qualità, cosa nella quale credo che le nuove generazioni siano molto brave. Ho potuto constatare con piacere la presenza di un pubblico molto giovane agli ultimi due concerti con Karthago e ho fiducia nei ragazzi e nella loro capacità di ascolto: privilegiare questo tipo di audience come target potrebbe essere una strada. Quando si parla del pubblico subito si fa riferimento al ruolo degli artisti, ma sarebbe molto utile secondo me investire anche nella formazione e nello scambio culturale tra nuovi professionisti dello spettacolo (bookers, managers ma anche promoter e giornalisti)».

«Ciò potrebbe favorire in ultimo una circuitazione nazionale e internazionale più attenta alle novità, che punti sulla diffusione qualitativa di più argomenti invece che di pochi e ricorrenti».

Quali sono i tuoi prossimi progetti? 

«Sono adesso al lavoro su del materiale per un large ensemble, che vorrei raccogliere in un nuovo lavoro discografico per il prossimo anno. A breve uscirà Averno, il secondo disco di KÓSMOS, il trio italiano di cui sono co-leader insieme al pianista Stefano Falcone e al batterista Giuseppe D’Alessandro. Sto pianificando un nuovo tour con Karthago per quest’autunno/inverno e in cantiere ci sono diverse collaborazioni che dovrebbero realizzarsi nel 2023 con musicisti da Svezia, Danimarca, Norvegia e UK».

Cosa ascolta Ilaria Capalbo in queste settimane?

«Vermillion di Kit Downes, Koma West di Koma Saxo, l’ensemble del contrabbassista svedese Petter Eldh. See the Birds di Nate Smith KINFOLK che ho avuto modo di vedere in concerto la scorsa settimana a Stoccolma, What Kinda Music di Tom Misch e Yussef Dayes. Mr. Morale & The Big Steppers di Kendrick Lamar».

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