Incrociare le pratiche legate alla sound art con la pianificazione territoriale e l’urbanistica.
Muovere una pratica artistica legata ai suoni dell’ambiente verso una sua potenziale efficacia politica e sociale. Questo e molto altro è il cuore di Suoni a margine, libro che Nicola di Croce ha appena pubblicato per Meltemi.
Originalissima figura di musicista, architetto, da anni attento al rapporto tra ambiente sonoro e pianificazione, Di Croce (che ha poco più di trent’anni) è riuscito in questo libro a dare conto di un numero davvero ragguardevole di risultati teorici che appartengono a diversi campi (e che spesso in Italia non sono ancora giunti con la meritata attenzione), unendo a essi una serie di esperienze progettuali effettuate personalmente in questi anni.
Dei vari progetti illustrati nel volume è anche disponibile gratuitamente dal sito dell’editore il download delle tracce audio relative, ottimo complemento per un lavoro che ci sembra di grande importanza ad ampio raggio.
Ne abbiamo parlato direttamente con l’autore.
Come nasce l’idea di questo libro?
«Suoni a margine nasce dal mio percorso di dottorato in Pianificazione territoriale e politiche pubbliche presso l’Università Iuav di Venezia dal 2013 al 2015. Allo stesso tempo il libro è un diario delle esperienze artistiche che mi hanno permesso di avvicinare i mondi apparentemente distanti della pianificazione e degli studi sull’ambiente sonoro (sonic studies) e di creare così un ponte tra pratiche artistiche legate alla sound art e alla performance, lo studio di politiche urbane e territoriali, e la partecipazione. L’idea è quella di contribuire a questo dialogo in Italia – e in italiano – proprio perché è qui che sento ce ne sia una forte necessità».
Da dove viene il tuo interesse per il rapporto tra due discipline come la sound art e la pianificazione urbanistica?
«Negli anni della mia formazione ho studiato architettura e contemporaneamente ho sempre portato avanti gli studi musicali, prima suonando la chitarra, poi avvicinandomi a linguaggi via via più elettronici e vicini alla sperimentazione e all’uso di registrazioni ambientali (field recordings). Durante l’università ho iniziato ad interessarmi all’urbanistica e alla pianificazione, a spostarmi dal mondo del progetto di "forme" a quello del governo della città e del territorio. In quegli anni l’insegnamento più grande è stata una semplice frase della mia relatrice: «ogni lettura è progetto», una frase che ha iniziato a circolare, e a farmi riflettere sulle forme di conoscenza che preludono a ogni tipo di azione progettuale. Se cambia la lettura – e quindi cambia la mia analisi, il mio approccio, il modo in cui imposto la mia comprensione del problema – cambierà anche il progetto, cambierà l’esito della mia pratica».
«Ogni lettura è progetto».
«La pianificazione si lega all’ascolto esattamente in questo punto, e da quel momento la mia scommessa è stata cercare di esplicitare quella intuizione attraverso una molteplicità di strumenti artistici e di ricerca, che mi hanno inevitabilmente avvicinato al mondo della sound art».
Uno dei pregi del libro è quello di dare conto di molti contributi teorici – di discipline differenti, spesso – che in Italia non erano ancora stati recepiti. Quali pensi siano i più importanti o significativi?
«Costruire la bibliografia che supporta il libro è stato un processo molto complesso, proprio perché era necessario esplicitare senza forzature un legame tra discipline che non si erano mai parlate tra loro, soprattutto in Italia. Tra queste, credo che la letteratura prodotta dalla sound art, e dalla urban sound art (più vicina a tematiche urbane) abbiano costruito negli ultimi vent’anni un repertorio di riflessioni, di azioni e di esiti che potrebbero (e dovrebbero) essere presi seriamente in considerazione dagli studiosi e dagli attori politici interessati alle tematiche urbane più problematiche».
«Potrei citare tra tutti Sam Auinger e Bruce Odland (O+A),sound artists che hanno riflettuto molto acutamente sulla capacità delle loro opere sonore urbane di misurarsi con aree in grande trasformazione, fornendo spesso soluzioni capaci di migliorare "visibilmente" la qualità dello spazio pubblico. Ma potrei anche menzionare la scuola francese nata in seno al CRESSON, centro di ricerca che ha ibridato con successo la sociologia urbana con l’importanza di un approccio legato ai sensi più sottovalutati dalla pianificazione (come l’udito o l’olfatto)».
In molti casi da te analizzati l’aspetto dell’identità territoriale emerge come centrale: quanto ci può dire il suono dell’identità di un luogo?
«Credo che parlare di identità, soprattutto di questi tempi, sia molto difficile, che sia per certi versi pericoloso, perché si rischiano spesso pesanti strumentalizzazioni, ma che sia allo stesso tempo estremamente importante».
«L’identità, e le identità di un luogo non rappresentano caratteristiche immutabili nel tempo, sono invece strumenti di comprensione – e di autoanalisi se vogliamo – delle evoluzioni culturali di una collettività. Il paesaggio dopotutto non è altro che la stratificazione dei segni impressi dall’uomo nell’ambiente naturale, e ascoltare criticamente il paesaggio rappresenta quindi una possibilità di comprensione molto sofisticata e penetrante. Le identità mutano, le tradizioni scompaiono, il "saper fare" delle comunità locali si disperde, e le azioni quotidiane di ciascuno sembrano spesso mosse da una completa assenza di consapevolezza ambientale e politica. Riflettere sull’identità – e farlo anche attraverso l’ascolto – sembra allora estremamente necessario per la maturazione di una coscienza sociale ed ecologica».
Quali sono i musicisti che in questo campo ti hanno maggiormente influenzato o che ti piacciono di più?
«Siamo a cavallo tra musica, ricerca, e sound art, e forse proprio per questo trovo particolarmente interessanti quelle figure che sono riuscite a portare avanti negli anni un approccio trasversale in cui il suono è il tramite privilegiato per affrontare specifici temi. Penso allora a BJ Nilsen, ad Angus Carlyle, a Chris Watson, a Lawrence English, ma anche a quei musicisti che hanno saputo misurarsi egregiamente con questi linguaggi come Jim O’ Rourke, Oren Ambarchi, Christian Fennesz, solo per citarne alcuni».
Il tuo lavoro ha anche un forte aspetto politico, dal momento che la consapevolezza (tiri in ballo giustamente il concetto di empowerment) e la responsabilità, specialmente collettiva, di come ascoltiamo il nostro ambiente è un punto di partenza per una dimensione di possibile partecipazione politica. Quali esiti e quali ipotesi in queste prospettive?
«Durante questi anni di ricerca sono stato spesso stimolato da periodi di residenza artistica nei luoghi più diversi, e ho costantemente tentato di instaurare un dialogo con le comunità e le amministrazioni locali avviando progetti di maturazione di consapevolezza all’ascolto. L’empowerment non è altro che il processo di apprendimento di comunità e amministrazioni che il mio lavoro si augura di incoraggiare. Se per le amministrazioni locali questo processo può risultare più lungo e faticoso, per le comunità può invece rappresentare un incentivo per disporre di strumenti inediti da spendere sul piano del dibattito pubblico. Comunità "acusticamente consapevoli" possono con più forza impegnarsi per il raggiungimento di obiettivi che tirano in ballo le caratteristiche dell’ambiente sonoro, ma inevitabilmente vanno a toccare questioni rilevanti per l’intero contesto di riferimento. Basti pensare alla gentrificazione dei centri storici, alla scomparsa di patrimoni culturali intangibili, allo spopolamento delle aree interne italiane, ai conflitti di difficile gestione tra gruppi sociali differenti».
Quali i tuoi prossimi progetti?
«Lavorare con le comunità locali rappresenta uno dei fulcri del mio interesse artistico e di ricerca. Tuttavia credo che in questa fase sia indispensabile sperimentare forme di interazione con le amministrazioni che chiamino in gioco la centralità dell’ascolto dell’ambiente sonoro quotidiano. Questo è l’aspetto su cui mi auguro di riuscire a concentrare le mie energie nel prossimo futuro. Parallelamente, ritengo importantissimo diffondere il più possibile gli obiettivi e gli esiti della mia ricerca attraverso i mezzi più diversi: promuovendo i miei lavori musicali, le mie performance (spesso partecipative), e i miei articoli scientifici».