Xixa
Bloodline
Glitterhouse
Ci sono delle associazioni fra suoni e immagini che sono particolarmente dure da scardinare. E che, ad analizzarle appena un po’ meno superficialmente, rivelano come una qualsiasi “purezza” di ispirazione sia impossibile da tracciare, meno che mai su basi etniche.
La “musica del deserto” è una di queste. L’idea di un suono “desertico” affonda probabilmente le radici nel cinema western, specie quello all’italiana (chi è più “desertico” di Ennio Morricone?). Come descriverlo? In generale, la differenza sembra farla lo spazio che viene costruito intorno alla musica: i riverberi cristallini e limpidi, l’eco che “bagna” tutti i suoni (curioso che si usi questo verbo, in studio di registrazione), certi suoni di chitarra, certi tempi dilatati...
Nell’ultimo ventennio una delle migliori versioni del suono “americano” del deserto è quella che si è sintetizzata a Tucson, intorno due formazioni principali, accomunate dalla grande circolazione di musicisti e idee musicali e dalla comune filiazione: i Giant Sand (e le loro varie incarnazioni) e i Calexico.
Dai primi provengono anche i due titolari di Xixa, Brian Lopez e Gabriel Sullivan, che pubblicano ora il disco d’esordio per un’etichetta specialista del sound desertico, Glitterhouse. Come suggerisce il cognome di almeno uno dei due membri, il milieu è quello di una Tucson interculturale, di immigrati – ma di seconda o terza generazione, pienamente americani tanto per formazione quanto per il modo di guardare verso le proprie “radici” musicali.
Lo sguardo verso sud è una costante di tutta questa scena, naturalmente. Il maggiore interesse di Bloodlines è piuttosto il salto geografico e di epoca che questo sguardo propone: la prima ispirazione del gruppo è, per stessa ammissione dei fondatori, una compilation di qualche anno fa,The Roots of Chicha, che raccoglieva brani del genere psichedelico peruviano risalenti agli anni settanta (la chicha, o cumbia peruviana, suona in realtà molto simile ad altre musiche analoghe in altri paesi del Sud e del Centroamerica).
I corto-circuiti sono allora molteplici: i suoni vintage e psych delle chitarre alludono tanto al rock seventies quanto a quei mondi sonori lontani, al rock latino di ieri e di oggi, al cinema americano e al suo corredo di immaginario visivo e sonoro su quei paesi… Il risultato convince e si fa apprezzare: spicca – variazione sul tema desertico – la presenza in “World Goes Away” di Sadam Iyad Imarhan, già con Tinariwen e Imarhan, che traccia un ponte (non il primo) fra il Sahara e la frontiera americana.