David Bowie, Blackstar
È stato un anno segnato dagli addii: Prince e Leonard Cohen, per dirne due. Di tutti, il più struggente è stato quello di David Robert Jones, morto due giorni dopo la pubblicazione di un ultimo disco: come se avesse sceneggiato la cerimonia del suo commiato dal mondo. Da ciò l’intensità quasi soprannaturale che lo informa: “Sono in pericolo, non ho più niente da perdere”, canta in “Lazarus”…
Nick Cave & The Bad Seeds, Skeleton Tree
Una tristezza profonda pervade anche l’album dell’artista australiano, reduce dalla scomparsa del figlio quindicenne Arthur. Non v’è infatti sofferenza più lacerante di quella che subiscono i genitori colpiti da una simile tragedia. Un’elaborazione del lutto scandita in otto episodi: da “Jesus Alone”(“Sei caduto dal cielo, schiantandoti in un campo vicino al fiume Adur”) a “Skeleton Tree” (“Adesso è tutto a posto”). Un capolavoro amaro.
Frank Ocean, Blond(e)
D’altra parte è però doveroso celebrare la vita. Come fa l’“oceanico” californiano ostentando sentimenti a cuore aperto, senza dissimulare la propria elusività di “genere”: un atto di coraggio nel contesto storicamente omofobico dell’hip hop. A ciò si aggiunga la musica, ingegnosa e formalmente audace nel mettere in scena una sorta di spleen del ghetto.
Anohni, Hopelessness
Coraggio che non è certo mancato al fu Anthony Hegarty nell’affrontare una metamorfosi riguardante tanto l’identità sessuale quanto l’attitudine artistica. Affiancato dai produttori elettronici Hudson Mohawke e Oneohtrix Point Never, non più dai romantici archi dei Johnsons, ha reinventato l’idea stessa della “canzone di protesta” prendendo di mira il riscaldamento globale, la pena di morte, la sorveglianza di massa e le bombe sganciate dai droni.
Nicolas Jaar, Sirens
Ha densità politica pure il nuovo lavoro del giovane newyorkese, che rievoca il Cile da cui fuggirono i genitori per sottrarsi alla dittatura militare associandone i ricordi a un corredo sonoro al solito originale e raffinato, fra echi di post punk e ritmi di cumbia.
Tim Hecker, Love Streams
Rimanendo nella sfera del suono elettronico, non si può dimenticare l’opera del produttore canadese, capace di ricollocare al tempo corrente le polifonie rinascimentali del compositore fiammingo Josquin des Prez. Impresa che avvince per il modo nel quale trasforma una premessa concettuale in pathos emotivo.
Ian William Craig, Centres
Su lunghezze d’onda analoghe si muove un suo connazionale meno noto ma dotato di altrettanto talento. Congegna musiche “difettose” ricorrendo a tecnologie obsolete e tuttavia ne ricava – con un’alchimia prodigiosa – effetti vertiginosamente avveniristici.
Jenny Hval, Blood Bitch
Altra intelligenza inquieta: la cantante e compositrice norvegese sfida il bon ton dedicando un disco intero al tabù del ciclo mestruale, appena celato dietro la metafora del vampirismo. Architetta così, con acume e grazia, avant-pop degno di Björk o Laurie Anderson.
I Cani, Aurora
Un po’ d’Italia non guasta affatto. E dovendo scegliere qualcuno che ne rappresenti la tradizione pop con intenzione innovativa, chi meglio di Niccolò Contessa? Testi come pochi altri ne scrivono oggigiorno e melodie che sanno essere contagiose evitando le insidie del banale. Canzone d’autore per la generazione digitale.
Swans, The Glowing Man
E per finire, il canto dei Cigni: ossia il passo d’addio di questa versione della band guidata da Michael Gira, fautrice di una visione del rock poderosa e solenne quanto una sinfonia. Un epilogo adeguato al valore della sua storia.