Alla sua uscita negli Stati Uniti, nell’estate del 2018 La musica del cambiamento del critico del New York Times e di Jazz Times Nate Chinen è stato accolto con particolare entusiasmo.
Pur in tempi di sfarinamento delle definizioni e delle modalità stesse di produzione e fruizione, qualcuno doveva pur prendere il toro per le corna e provare a mettere un po’ di ordine nel jazz degli ultimi trent’anni, un tempo che può sembrare abbastanza corto e compresso per noi che ci siamo dentro, ma che in fondo ha la stessa ampiezza del periodo che va dall’avvento del bebop alla fusion.
Eccolo ora in italiano, Playing Changes: Jazz for the New Century, il cui “gioco di parole” jazzistico non trova riscontro nel più piatto titolo La musica del cambiamento (sottotitolo: Jazz per il nuovo millennio, il Saggiatore, Milano 2019, 312 pp., 32€).
Dodici capitoli, densi di nomi e storie, in cui Chinen fornisce un’utile sistematizzazione di molte esperienze di questi ultimi decenni: dalle vicende di Wynton Marsalis a quelle di Kamasi Washington, passando per Jason Moran, Vijay Iyer, Brad Mehldau, ma anche di John Zorn, Tim Berne, Esperanza Spalding, Steve Coleman, Wayne Shorter, Mary Halvorson e molti altri.
Sistematizzazione che, pur molto aperta, difende comunque a spada sguainata il termine “jazz” dalle accuse di “morte” o di “trasferimento a altri indirizzi” (per citare Stuart Nicholson). Sistematizzazione profondamente USA-centrica – poca attenzione viene data al jazz dell’Europa o di altri continenti – utile per chi già è “informato dei fatti”, forse un po’ troppo affastellata per chi si volesse incuriosire della cosa dal nulla, ma dopotutto siamo ormai in un’era in cui si può accedere a quasi tutto quello di cui scrive l’autore con un semplice clic del computer.
Difficile però, dalla sola, ipoteticamente astratta lettura, capire qui in qualche modo le differenze musicali tra un Dave Douglas e gli Snarky Puppy, tra un Miguel Zenon e un Greg Osby.
Craig Taborn è «evocatore di epifanie acustiche», Mehldau ha un «tocco perfetto, ma non eccessivamente elaborato, un’inclinazione chiaramente brahmsiana e un approccio astutamente digressivo dell’armonia»… Per carità, sono vaghezze in cui chiunque di noi scriva di musica cade con facilità, però un ignaro lettore potrebbe anche dire… boh?
Per carità, sono vaghezze in cui chiunque di noi scriva di musica cade con facilità, però un ignaro lettore potrebbe anche dire… boh?
E se, meritoriamente, un capitolo è dedicato all’educazione e un altro esplora i legami del jazz con l’universo R&B (Soulquarians, Flying Lotus, Roy Hargrove, Robert Glasper sugli scudi), misteriosamente ignorati sono ad esempio i percorsi di un Matthew Shipp con la Blue Series della Thirsty Ear.
Chinen procede lungo i capitoli con un piglio risolutamente giornalistico, svelando aneddoti e retroscena, provando a inquadrare i tanti percorsi artistici dentro pratici alvei di senso e di tradizione (o anche, quando serve, per giustapposizione).
Lo fa con in mente – più o meno inconsciamente – il concetto di “playlist”, un po’ come ormai la maggior parte dei narratori hanno in mente l’idea di “sceneggiatura”. Lo fa con la sua tipica scrittura, veloce e iperaggettivata, una scrittura non bellissima in fondo, ma che nel giornalismo musicale di lingua inglese ha ormai una sua rodata efficacia.
Il problema di questa edizione italiana del libro sta però proprio nella traduzione di questa scrittura, che dà sin dalle prima righe una sensazione di approssimazione e meccanicità tale da rendere la lettura veramente penosa.
Al di là delle consuete imprecisioni terminologiche e dei cambi di sesso dovuti all’ignoranza della materia (Nicole Mitchell e Kris Davis diventano dei “lui”, la musica di Steve Lehman ha sfumature “spettrali” e non spettraliste, tanto per dirne un paio…), si ha proprio l’impressione che, per fretta o per sciatteria, si sia al massimo provveduto a una velocissima sistemata di una traduzione automatica (o letterale, WordReference alla mano). Cosa esecrabile in generale, a maggior ragione in presenza di un gergo che avrebbe richiesto anche ulteriori sforzi di adattamento e scorrevolezza complessiva.
Libro che difficilmente da noi incuriosirà lettori giovani o giovanissimi (anche per il prezzo, 32€, mentre l'edizione in paperback originale è disponibile a circa la metà), La musica del cambiamento lascia la sensazione di un’occasione sprecata e di un lavoro i cui pregi, che in fondo, data la vastità del contesto affrontato, non mancano, si conquistano solo con una certa fatica. Peccato.