Il 3 gennaio scorso è improvvisamente scomparso a 74 anni, per un arresto cardiaco, Franco Caroni, forse la persona più attiva e influente nella storia della didattica del jazz in Italia.
Tutti sanno che Caroni era stato il fondatore di Siena Jazz, la più importante istituzione jazzistica italiana, e ne è rimasto per decenni la sua indiscutibile guida. In questa intervista di Alceste Ayroldi per Musica jazz lui stesso racconta per filo e per segno come nacque tutto.
Quando nel 1977 gli venne l’idea di creare dei corsi di jazz – per imparare anche lui a suonare un po’ meglio, chiosava, bassista rock che si era convertito al contrabbasso jazz – stava ponendo, senza averne idea, le basi di una rivoluzione: quella della didattica del jazz in Italia, che fino a qual momento aveva conosciuto solo le fondamentali ma sporadiche esperienze di Giorgio Gaslini.
Quando nel 1977 gli venne l’idea di creare dei corsi di jazz, Franco Caroni stava ponendo, senza averne idea, le basi di una rivoluzione: quella della didattica del jazz in Italia.
Soprattutto, Caroni stava immaginando un’alternativa al vuoto dei conservatori, che rifiutavano il jazz come sporcizia nei templi della “musica seria”. Erano gli anni in cui il jazz in Italia era in formidabile crescita, di musicisti e pubblico, caricato anche di eccessivi significati politici. Ma in Franco non c’era rivalsa, risentimento o rivendicazione: semplicemente voleva creare qualcosa di utile.
Ci aveva visto giusto: quando quei primi corsi divennero dei seminari estivi di due settimane, tra fine luglio e i primi di agosto, la crescita fu esponenziale. I docenti furono scelti tra i jazzisti italiani più noti del momento, tra cui Franco D’Andrea, Claudio Fasoli, Bruno Biriaco, Bruno Tommaso, e poi Enrico Rava, Enrico Pieranunzi, Giancarlo Schiaffini, un emergente Gianluigi Trovesi e l’indimenticato Giancarlo Gazzani. A cui se ne aggiunsero molti altri, anche ex allievi, negli anni a seguire.
Quei docenti attiravano gli studenti come calamite: ma fu anche altro a fare la fortuna di Siena Jazz. Io ho frequentato quei seminari per due anni nella seconda metà degli anni Ottanta: aspiravo – a torto a o ragione – a fare il pianista jazz, anche se poi fui folgorato dalle lezioni di analisi musicologica di Marcello Piras.
L’atmosfera era elettrizzante: giovani e motivati i docenti, giovani e curiosi gli studenti, e non c’erano barriere che li separavano. Le esperienze si mescolavano tra folgorazioni, attriti, epifanie e crolli: ma tutti erano desiderosi di condividere l’entusiasmo per una musica in palpabile crescita.
In questo clima travolgente, che aveva epicentro nella Fortezza medicea, Caroni era il nocchiero e l’àncora, il dittatore e il confessore, l’ubiquo e l’introvabile, l’usciere e il mega presidente, l’entusiasta e il disperato, il sognatore e il pragmatico.
Caroni era il nocchiero e l’àncora, il dittatore e il confessore, l’ubiquo e l’introvabile, l’usciere e il mega presidente, l’entusiasta e il disperato, il sognatore e il pragmatico.
Quando nel 1993 entrai nel corpo docente (dal 1995 nei seminari estivi), compresi quanto Siena Jazz funzionasse procedendo su due strade: quella della segreteria sempre pronta, disponibile ed efficiente, e quella della stanza di Caroni, dove regnava un caos apparente, che era creativo e periglioso, incomprensibile ma dominato, sotto il controllo del totem-contrabbasso in un angolo.
Lo trovavi davanti a enormi fogli con complicati schemi degli orari, a scambiare caselle con matita e gomma. Il suo horror vacui del calendario era leggendario: ma come? C’è un’ora buco tra le 13 e le 14? Ma bisogna metterci una lezione! Poi qualcuno gli faceva notare che riposarsi e mangiare poteva migliorare la didattica… ok, vada per la pausa pranzo. I seminari comunque iniziavano alle 9 e finivano alle 20, e chi come me insegnava ai due estremi dell’orario non di rado si trovava classi reduci da notti di stravizi o stremate dalla giornata trascorsa.
Altre volte, entrando in ufficio lo si vedeva, sempre sbuffante e sudato, intento a far quadrare budget labirintici con squilibri abissali. I suoi sproloqui per spiegare i problemi, intrecciati a ragionamenti sulla didattica a tratti indecifrabili, tutto in rigoroso vernacolo toscano dalla consequenzialità logica scricchiolante, gli donavano un tocco naif, riscattato dall’autoironia, che ti lasciava il sorriso sulle labbra.
Se non fosse però che Franco aveva una visione, sapeva esattamente cosa stava facendo e sapeva come ottenerlo: tra uno sproloquio e l’altro, o meglio grazie a essi, ha creato il Centro Studi Polillo, ovvero il più grande archivio audio e bibliografico d’Italia (diretto da Francesco Martinelli), acquisito la sede della Fortezza Medicea, risistemato le aule e le infrastrutture interne con servizi che ancora oggi i conservatori italiani si sognano, ottenuto – dopo anni di lavoro e in anticipo su tutti – la certificazione ISO 9000, avviato collaborazioni internazionali di prestigio e, al culmine di estenuanti negoziazioni istituzionali, il riconoscimento di struttura AFAM, che equipara Siena Jazz a un conservatorio.
Il tutto poggiato su indiscutibili fondamenta deontologiche e, udite udite, a titolo gratuito, visto che si guadagnava la pagnotta facendo l’informatore medico-scientifico per una casa farmaceutica, facendo pure carriera (è andato in pensione solo nel 2005).
Quello che Caroni ha creato a Siena tra gli anni Ottanta e l’inizio del nuovo millennio è stato non solo unico e innovativo, ma ha definito il modello sul quale poi sono stati disegnati i corsi di jazz nei conservatori italiani, dove sono finiti a insegnare molti docenti dei seminari. In più Siena Jazz, almeno fino a un certo punto, ha potuto vantare uno spirito anti accademico figlio degli anni Settanta, con i corsi di Schiaffini, la memorabile orchestra laboratorio, le jam session. Da lì non a caso sono usciti quasi tuti i migliori musicisti italiani di jazz degli ultimi trent’anni.
Naturalmente Franco aveva i suoi difetti e pregiudizi, come tutti. Tre erano macroscopici e hanno contribuito nel bene e nel male a plasmare il futuro.
Intanto non ascoltava i consigli: o meglio, ascoltava solo quelli che erano funzionali alla sua visione. È vero, a volte chiedeva dei pareri, ma poi nella sua testa entravano solo quelli che confermavano il suo progetto iniziale, o non lo alteravano troppo. Poi: una volta che si era fatto un’idea su una persona, non la cambiava, neanche dopo anni e neanche davanti alle smentite. Infine, cosa più grave, non si è mai coltivato seriamente una persona a cui consegnare la sua immensa esperienza e conoscenza dell’ambiente. Pur circondato da molti collaboratori preziosi, e spesso insostituibili, che hanno fatto crescere Siena Jazz, Caroni era in fondo un accentratore, che si fidava solo di se stesso, perché in effetti era l’unico ad avere chiaro l’intero disegno.
Alla lunga però questa chiusura, in un mondo che cambia, ha presentato il conto. Lui stesso ha messo in opera diverse riforme interne, ma quando per avvicendamenti istituzionali ha dovuto abbandonare la guida, la struttura ha cominciato a scricchiolare.
Oggi Siena Jazz versa a più livelli in una crisi seria, e la morte improvvisa del suo fondatore lascia un sapore sinistro. Una crisi che, è noto, investe l’intera città di Siena, con cui Caroni – senese fino al midollo – ha avuto un rapporto ambivalente. Solo un visionario, ma non ingenuo, come lui poteva concepire un’impresa del genere in una città di provincia che, fino a qual momento, non esisteva sulla cartina del jazz italiano. Ma le difficoltà che ha dovuto affrontare non si contano. Dall’esterno, ci sembrava che facesse una fatica di Sisifo: ogni anno gli stessi problemi, ogni anno le stesse discussioni, ogni anno le stesse incertezze, dalle minuzie organizzative alle questioni strutturali, e così per dieci, venti, trent’anni. A volte sembrava che la città lo ignorasse, e lui era costretto di continuo a bussare col cappello in mano a quella o quell’altra porta. Per questo oggi appaiono un po’ retoriche le parole di cordoglio di istituzioni che in passato hanno permesso di concretizzare un sogno così audace, ma mai col vento in poppa.
Un vento che oggi però spira su gran parte della didattica del jazz in Italia: e quell’Eolo toscano, simpatico e generoso, ora lo sentiamo soffiare dietro di noi, sospingendoci verso quegli ulteriori traguardi che lui stesso sognava.