Francesco Diodati, i volti di un nuovo jazz italiano

Intervista al chitarrista e compositore Francesco Diodati: Never the Same (Auand) è il nuovo disco dei suoi Yellow Squeeds

Francesco Diodati
Francesco Diodati (foto di Cristina Cervesato)
Articolo
jazz

Fra i tanti, interessanti, volti del nuovo jazz italiano, quello del chitarrista e bandleader romano Francesco Diodati spicca per una freschezza dello sguardo che non può che conquistare. Se è certo vero che di musica stiamo parlando qui e non di fisiognomica, mi sono permesso di aprire il pezzo con questa annotazione perché la medesima limpidezza emerge facilmente anche dallo strumento di Diodati e dai suoi progetti.

Artista rigoroso e curiosissimo, da anni alla corte di Enrico Rava (che in quanto a “giovani” ha un certo fiuto), ma anche attivo con i propri gruppi, Diodati è stato in questi ultimi anni impegnato su più fronti, portando avanti una ricerca che, ce la racconterà lui stesso, sta diventando sempre più personale.

L’occasione per incontrarlo e intervistarlo ci viene offerta dall’uscita del nuovo lavoro di quella che è stata forse la sua band più fortunata, il quintetto Yellow Squeeds, completato dalla tuba di Glauco Benedetti, dalla batteria di Enrico Morello, dalla tromba di Francesco Lento e dal pianoforte e dai synth di Enrico Zanisi.

Un lavoro, Never the Same, che sviluppa le idee già espresse nel primo Flow, Home, sempre per l’etichetta Auand, e che dà l’idea di un mondo in continuo mutamento, uno scenario sonico in cui l’umanità di ciascun musicista trova di volta in volta, spazi e direzioni.

Yellow Squeeds - Francesco Diodati
Yellow Squeeds

Il nuovo disco con gli Yellow Squeeds, Never the Same, esce a tre anni e mezzo dal precedente: mai lo stesso dice il titolo e allora ti prendo in parola e ti chiedo cosa è cambiato da allora, musicalmente, espressivamente?

«Credo di poterti rispondere: tutto. E continua a cambiare. È cambiato il mio modo di vedere la musica, di fare ricerca con la musica, di stare sul palco e di rapportarmi con gli altri musicisti. Fino a qualche anno fa preparavo il concerto per poter esporre la mia musica a chi voleva ascoltarmi. Ora suono e ricerco e quando c’è un concerto condivido queste esperienze.  Ovviamente lo faccio anche preparandomi, ma c’è uno spirito molto diverso».

«Già questo cambia tutto perché non voglio dimostrare niente e al più non mi interessa suonare “bene”. Voglio dare la “verità” di quello che sono e suono, in quel momento, è questo che mi interessa. Voglio mettermi a nudo e desidero che i miei compagni di palco facciano altrettanto per poter far diventare la musica un linguaggio attraverso il quale rapportarci fra di noi e con chi ci sta attorno. Voglio rischiare di fare arte fino all’ultimo secondo di musica». 

Come hai lavorato ai brani del disco? 

«Ci sono diversi modi attraverso i quali lavoro: alcuni brani sono frutto di registrazioni di improvvisazioni sulla base di una idea specifica, altri frutto di prassi e interiorizzazione di poliritmie e sequenze armoniche o riff». 

«La mia giornata è un lungo laboratorio di studi, musicali e non, che sono “silenti” e spesso solo dopo molto tempo riemergono in una composizione, soltanto dopo che sono diventati parte di quello che suono». 

«Alcuni brani poi sono cambiati in sede di prova o addirittura di registrazione. Non “suonavano” più come li avevo pensati e allora abbiamo cercato modi diversi di eseguirli, cambiando anche struttura e forma in certi casi. È il caso della title track, o di “Here and There»”.

Quanto influisce l’organico?

«Sicuramente l’organico influisce perché non ci sono molti riferimenti “storici” – o comunque non per come l’ho immaginato – perciò sono e siamo costretti a inventarci un suono collettivo, ma in particolare influisce chi è il musicista. Ad esempio non ho una tromba per cui scrivere, ho Francesco Lento, che ha un suono e delle caratteristiche precise».

Quanto l'elemento elettronico/elettrico influisce sul concetto stesso del gruppo? 

«Non mi do limiti perché il mondo va avanti e il progresso tecnologico influisce sicuramente anche sulla musica. Io lo affronto con gli effetti per chitarra, Zanisi con i synth. Sono suoni stimolanti, aprono un immaginario nuovo, danno colori diversi».

Ci sono artisti elettronici che in particolare ti hanno suggerito direzioni, spunti?

«Mi piace ascoltare Flying Lotus, Alva Noto, Autechre, per dirne alcuni e mi piacerebbe approfondire questo mondo».

Never the Same

Hai avuto modo di "rodare" il repertorio del disco in alcuni concerti, sia in Italia che in Europa, nell'ambito del progetto Nuova Generazione Jazz promosso da I-Jazz con il supporto del MIBAC e della Siae. Che indicazioni hai tratto da quelle serate?

«Sono state molto importanti proprio per testare il repertorio. La cosa più bella di avere diverse date in un piccolo spazio di tempo è che la musica può fare grandi passi: alcune persone ci hanno ascoltato a distanza di qualche settimane e mi hanno detto di aver sentito un concerto completamente diverso… Eppure i brani erano gli stessi! Mi è sembrato un bel complimento, perché stiamo aprendo sempre di più i brani per farli diventare delle risorse da sfruttare e andare ogni volta più in là, e non delle musiche da eseguire. Non è un caso che uno dei miei massimi riferimenti musicali rimanga a tutt’oggi il quintetto di Miles Davis con Wayne Shorter…».

Vorrei trarre spunto dal progetto di sostegno cui accennavamo, proprio per chiederti una tua riflessione sul sentimento "generazionale" che mi sembra leghi alcuni musicisti con cui collabori. Quali sono i tratti di questo sentimento?

«Un respiro collettivo, interessi e vedute ampie e un sapersi porre domande sul proprio ruolo di musicisti. Ognuno di noi può vivere suonando e arrangiandosi alla meglio, ma a me (e a molti musicisti con cui collaboro) non basta». 

«Cos’è la musica, perché continuiamo a farla dal vivo nonostante siamo bombardati da ogni parte? Cosa ci spinge a continuare, spesso con grossi sacrifici? Non credo sia una sete di successo, altrimenti avremmo fatto altro… o per lo meno un altro genere! Invece vedo tanti miei compagni che scrivono musica, che vogliono spingersi oltre, che non si accontentano. Penso sia uno spirito molto bello e stimolante».

Un esito evidente delle affinità elettive che legano alcuni giovani musicisti italiani è il trio Floors con Filippo Vignato al trombone e Francesco Ponticelli al contrabbasso, il tutto anche qui potentemente innervato di elettronica. Come nasce il progetto e come sta crescendo?  

«Ho iniziato a collaborare con Filippo nel 2016, dopo averlo conosciuto in occasione di un concerto con gli Auanders e abbiamo fatto qualche concerto in duo o occasionalmente con Ariel Tessier, per poi invitarlo in alcuni concerti al SüdTirol Festival con gli Yellow Squeeds. Con Francesco Ponticelli invece c’è un sodalizio artistico e umano da più di 10 anni, con i Neko e tante altre formazioni.  Sono entrambi musicisti e compositori dalla fervida immaginazione. Lavorare con due musicisti così non ha limiti. Nel corso del tempo stiamo portando molto materiale composto da tutti e tre e cercando di trovare un suono nostro. Lo immagino a metà strada tra i trii di Jimmy Giuffre e il minimalismo spinto degli Autechre e in effetti abbiamo passato fasi molto elettroniche e altre molto acustiche». 

A quando un disco?

«In questo momento ci stiamo riunendo a più riprese in residenze in cui proviamo musica nuova, improvvisiamo totalmente e poi ascoltiamo il risultato, cercando un suono omogeneo. Abbiamo fatto alcuni concerti la scorsa estate (fra cui Umbria Jazz) e sono andati molto bene, a breve saremo in giro per l’Europa e poi vorremmo registrare dopo l’estate mettendo su disco tutto il lavoro svolto finora».

Altro trio che recentemente ti ha visto protagonista è Blackline con la francese Leila Martial alla voce e  Stefano Tamborrino alla batteria: anche qui la curiosità è grande per l'idea del progetto, le linee su cui è costruito e il suo futuro, se con disco o senza...

«Abbiamo in previsione di registrare, questo è sicuro! Sono davvero entusiasta di questo nuovo progetto. Nell’estate del 2017 ho ascoltato Leila al SüdTirol Festival e mi ha totalmente rapito. L’ho contattata qualche settimana dopo proponendole di far parte di un nuovo progetto, che avrei voluto scrivere per lei la musica e, prima volta in vita mia, le parole. Poi ho contattato Stefano, con il quale già da tempo avevo voglia di collaborare; sapevo che si sarebbe trovato in sintonia con Leila. Dopo che hanno accettato ho passato alcuni giorni in fibrillazione in cui mi svegliavo la notte, oppure nei momenti più impensabili della giornata con delle parole in mente, testi quasi interi che canticchiavo registrandomi». 

«Quasi tutti i brani sono nati e stanno nascendo cosi, e trovo sempre più soddisfazione nella scrittura dei testi, sia dal punto di vista melodico – musicale (di solito creo testo e musica nello stesso momento) sia nel cercare di esprimere al meglio le immagini che ho in mente rivedendo i testi inglesi insieme a Leila». 

«Ora che ci penso bene sono anni che trascrivo le parole degli standard e in particolare il modo in cui sillabano le parole i grandi del jazz (Frank Sinatra, Judy Garland, Tony Bennett, Ella Fitzgerald) per assorbire al meglio le melodie e il ritmo che riescono a conferire. È un metodo che uso molto anche nell’insegnamento, per far capire agli studenti cosa vuol dire suonare una canzone americana e evidentemente c’è stato un momento in cui questo lavoro è inconsapevolmente riemerso in modo creativo».

«Per tornare al progetto, Blackline è Africa, è free style, è improvvisazione, è punk, è canzone tradizionale italiana; eppure sento tutto molto omogeneo. Abbiamo fatto alcuni brevi tour di rodaggio un anno fa e poi questa estate siamo stati invitati da Paolo Fresu a Berchidda per Time in Jazz, dove abbiamo fatto un concerto molto caldo, in tutti i sensi».

«C’è una energia particolare nel gruppo, una voglia di andare oltre i confini per centrare il nucleo fondante del fare musica. Parliamo molto con Leila di cosa significa per noi essere musicisti, e di come andare oltre le ristrette maglie della categorizzazione di musicista (e ancora più in particolare di musicista di jazz). Se è vero che il nostro linguaggio è la musica è altrettanto vero che nella performance c’è qualcosa che va ancora più in là». 

Il tuo sodalizio con Enrico Rava, sia con il New Quartet che in duo, dura ormai da qualche anno. In molti ti hanno già chiesto cosa ha significato per te l'incontro con Rava, a me incuriosisce capire cosa vi raccontate quando siete in tour, prima dei concerti, a cena... 

«Adoro parlare con Enrico e spesso gli chiedo degli anni a New York o a Buenos Aires e lo punzecchio perché ha tanti aneddoti pazzeschi. Passeggiando per Praga la scorsa estate per esempio mi ha raccontato di una residenza con Cecil Taylor, il quale arrivava sempre in ritardo (ma pretendeva che tutti rimanessero ad aspettarlo nella sala prove) e iniziava a dare infinite indicazioni (note, dinamiche, frasi), anche se poi in concerto si finiva a suonare free. Enrico è così, da un momento all’altro se ne esce con un aneddoto del genere, come se ti raccontasse di un qualsiasi momento di una qualsiasi giornata. In effetti la sua vita è così».

«Un’altra cosa che apprezzo molto è l’attenzione verso i suoi gruppi e la sua musica, ancora così viva dopo tanti anni sul palco; tempo fa hanno passato su Radio 3 il nostro concerto in quartetto a Cormòns nel 2017. Dopo qualche settimana ci siamo visti e Enrico ha iniziato a parlarmi di quale pezzo era venuto meglio, quale lo aveva convinto di meno, cercandone i motivi; sa davvero ascoltare».

Si capisce dalla sua musica in effetti…

«Ma, per completare la tua domanda, se vogliamo parlare di cene… parlare con lui di cibo e gastronomia è uno spasso: è un appassionato della cucina e in particolare delle diversità della cucina italiana. Prova a nominare la salama da sugo o il bollito in presenza di Enrico e avrai un enciclopedia parlante di fronte: posti, specialità, curiosità».

Come va il tuo lavoro interdisciplinare insieme alla danzatrice Roberta Racis? È un legame cui sono affezionato, avendo io partecipato attivamente alla prima parte di questa collaborazione, ma ora che il progetto è evoluto, in che direzione vi state muovendo?

«Molto bene, abbiamo fatto due residenze nel 2018, ora siamo in quattro perché oltre a Roberta e Ermanno si è aggiunto un danzatore sloveno, Leon Maric. È una sfida enorme, ma sono molto contento del lavoro che stiamo montando. A breve sarà concluso e spero che avremo occasione di portarlo in giro».

«Ci stiamo addentrando sempre di più in territori sconosciuti, in cui danza e musica si connettono davvero. Cerchiamo un’intensità e una coesione di gruppo, proprio come se avessimo un unico linguaggio, e non due idiomi che si incontrano. La musica può essere spazio, il corpo può essere tempo… Vogliamo davvero cercare un’immagine nuova, una tensione che vada al di là della danza e della musica».

Filippo Vignato - Borders

Quale tipo di spunti offre a un musicista e a un improvvisatore la collaborazione con una coreografa? Avendo lavorato e lavorando con entrambe le "categorie" ho sempre pensato che un po' di serio pensiero drammaturgico e performativo sarebbe estremamente utile anche a chi fa musica...

«Penso sia una delle collaborazioni più affascinanti che abbia mai fatto, in termini di sfida e di spunti artistici al di là della musica. Confrontarsi con una coreografa e danzatrice pone la sfida di uscire fuori dal ruolo di “musicista”, per relazionarsi a un concetto di fare arte più ampio. Poi, in effetti, a pensarci, nella musica non si dovrebbe mai prescindere da questa tendenza artistica, e di fatto da quando ho iniziato questa collaborazione sono cambiate molte cose».

«Se già intuivo che c’era qualcos’altro da cercare al di là della musica, nel confrontarmi con un pensiero drammaturgico, come dici tu, è stato palese che la musica di per sé non basta. Il problema è che ora non mi basta più nemmeno quando suono solamente, quindi è una ricerca aperta: come andare al di là della musica solo con la musica? Credo sia un buon proposito, di quelli a cui bisogna dare un tempo lungo. Fra qualche anno forse ne saprò qualcosa di più».

Senza aspettare anni e tornando al presente, cosa ascolta Francesco Diodati in queste settimane?

«Sono molto chitarristico! Derek Bailey, che non ho mai veramente approfondito (il disco Ballads è da mettere ad libitum nello stereo), Marc Ducret, Miles Okazaki, il cui lavoro in solo su Monk mi ha totalmente rapito, Jim Hall, in particolare i dischi in trio con Jimmy Giuffre e quello con Jimmy Raney e Bob Brookmeyer. Ho avuto anche dei giorni di fissa quasi maniacale con la versione di “Get Out of Town” di Melody Gardot, che non conoscevo, e ho fatto una indigestione di free style su YouTube».

I tuoi prossimi impegni e progetti?

«Sarò in tour con i Floors, con i Blackline nel nord Italia a marzo e poi ho diverse date di presentazione di Never The Same. Stiamo anche lavorando al disco nuovo con il MAT, progetto che condivido con Marcello Allulli e Ermanno Baron, con i quali abbiamo festeggiato 10 anni di attività. La musica che stiamo facendo si è molto evoluta e stiamo prendendo nuove direzioni, ne sono davvero entusiasta. In primavera prepareremo il nuovo repertorio con i Travelers di Matteo Bortone. Sarò anche molto impegnato in Italia ed Europa con Enrico Rava in una inedita Special Edition».

Mi accorgo che ti ho tempestato di domande, hai quindi diritto tu a farne una all'intervistatore, se vuoi, per contrappasso…

«Allora, ispirato da un bel documentario che andava in onda tanti anni fa in Italia, presentato da Luciano Berio: visti i tempi oscuri, oggi la musica dovrebbe avere anche una finalità politica secondo te? Oppure l’arte è già di per se atto politico?».

Non te la cavi male come intervistatore… Domanda insidiosa.
Non volendo prendere dello spazio che in fondo è tuo, e conscio che la riflessione non può essere liquidata in poche righe, ti rispondo che credo che ogni atto creativo sia profondamente politico nel momento in cui – per ragioni che possono anche essere molto diverse e non necessariamente corrispondenti al disegno iniziale – riesce a attivare qualcosa di differente alle comunità cui si rivolge. Non so se la risposta ti soddisfi, ma prendilo come un augurio…

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