(foto Reinhard Maximilian Werner)
Il Sidney Morning Herald l’ha definito “un uomo di teatro di corsa” (a theatre man in a hurry). A soli 32 anni, Simon Stone si è costruito una solida reputazione nel mondo teatrale grazie ai numerosi riconoscimenti importanti con inviti prestigiosi alle Wiener Festwochen, all’Holland Festival di Amsterdam, all’Ibsen-Festival di Oslo e ai Theatertreffen di Berlino. Regie teatrali a parte, nel suo curriculum vanta anche la fondazione e direzione artistica della compagnia teatrale “Hayloft Project” di Melbourne, una residenza al prestigioso Belvoir Theatre di Sidney e qualche esperienza nel cinema come attore e regista (il suo secondo film, “The Daughter”, si è visto alla Mostra del Cinema di Venezia). Dal 2015 è regista residente a Basilea, la città dove è nato da genitori australiani. Per il Theater Basel ha già all’attivo la regia di “John Gabriel Borkman”, indicato come il miglior allestimento della scorsa stagione teatrale dalla rivista “Theater Heute”, e il monumentale “Angels in America”, mentre in questa stagione l’attende “Le tre sorelle”. Ma soprattutto, dopo aver affrontato quasi tutti i maggiori classici del teatro, nella città svizzera si prepara al salto nell’opera con l’insolito “Die tote Stadt” e già lo attendono “Pelléas et Mélisande” a Oslo in primavera e “Lear” a Salisburgo. Lo abbiamo incontrato a Basilea a poche ore dalla prima per parlare di questa sua nuova avventura. Stone ci accoglie con piglio informale e amichevole. Parla in maniera vivace e soprattutto ti spiazza svoltando in direzioni inattese, seguendo percorsi mentali che denunciano la sua appartenenza a due mondi: l’interesse per la cultura pop e le inquietudini tipiche dell’intellettuale europeo.
Il tuo teatro deve molto a modelli europei o piuttosto centro-europei: venire a lavorare in Europa è stato un modo per riscoprire le tue vere radici?
«È vero che ho visto molto teatro europeo. Trovo però difficile definire un’estetica in termini di nazionalità. Io sono australiano e sono europeo e questo è un fatto della mia esistenza. Credo che entrambe queste due culture influenzino il mio lavoro. C’è certamente c’è l’estetica del teatro centroeuropeo ma anche l’esperienza del cinema americano indipendente.»
C’è qualcuno che ti ha segnato maggiormente nella tua esperienza di regista?
«Quando avevo 17 o 18 anni una personalità che ha avuto una forte influenza su di me è Romeo Castellucci. Ero molto colpito dalla purezza estetica del suo universo di immagini. Naturalmente il mio lavoro non somiglia in nulla a quello di Castellucci. Ma l’influenza è questa in fondo: è finire per fare qualcosa di completamente diverso da chi ti ha colpito di più!»
Come sei arrivato all’opera? C’entra con il tuo ruolo qui a Basilea?
«In realtà la prima proposta è arrivata due o tre anni fa da Oslo, dove mi hanno proposto il “Pelléas” che realizzerò nella prossima primavera. Devo dire che spesso, dopo aver assistito ai miei spettacoli, molta gente pensava che ci fosse della qualità musicale nelle mie produzioni e che avrei dovuto considerare l’opera. Immagino che avesse a che fare con il mio metodo di partire da testi classici e farli parlare a un pubblico contemporaneo. L’opera è un gioco fra musica – che ha impresso il segno del tempo – e la sua messa in scena. La musica ti trasporta in un’altra epoca, mentre una messa in scena, quando è davvero riuscita, ti tiene nel tuo mondo, come se la rappresentazione fosse una catena che tiene uniti passato e presente.»
Spesso per chi proviene dalla prosa, la musica è un limite: lo è anche per te?
«Mi piacciono i limiti. Una delle difficoltà maggiori quando scrivo i miei testi è che tutto è possibile. E questo può essere molto stressante. Ma anche in quel caso creo una serie di limiti, che spesso è la scenografia che progetto prima di sviluppare il testo, o il progetto di regia. Mi piace trovarmi in situazioni di emergenza nelle quali qualcosa si rompe o non funziona e devo sviluppare delle soluzioni creative per affrontare problemi pratici. Quando affronti un’opera è quello che devi fare continuamente: fare qualcosa di bello partendo dai limiti. È un po’ come correre lungo una serie di corridoi nei quali ci sono porte automatiche che continuano a chiudersi: tu stai scappando da un incendio e devi essere sicuro che riuscirai ad attraversare tutte quelle porte in tempo, prima che si chiudano davanti a te. Dirigere un’opera ti fa sentire così: un’avventura elettrizzante nella quale devi accertarti che tutto accada al momento giusto, un momento prima che arrivi la musica altrimenti è troppo tardi. Se le mie idee non sono abbastanza buone, resto chiuso fuori da quella porta.»
Una di queste “porte” è il lavoro con i cantanti: sono più difficili degli attori?
«Sì, si dice spesso, ma il lavoro è molto simile. In entrambi i casi si tratta di storie e di interpretazioni diverse di quelle storie. Nel caso dell’attore si tratta di essere se stessi quanto più possibile e di usare qualsiasi “rumore” siano in grado di produrre (e non c’è bisogno che sia bello). In maniera simile, il cantante deve trasferire la sua anima quanto più possibile nella musica. In questo senso il lavoro dell’attore e del cantante non poi è così diverso. La differenza è che il suono deve essere bello, ma anche brutto se è quello che vuole il compositore. In un certo senso, i cantanti “appartengono” a un compositore, cosí come gli attori appartengono ai loro personaggi. Quello che amo dei cantanti è il loro essere uno strumento e simultaneamente l’avere il pieno controllo del loro stesso strumento.»
Pensavo piuttosto ai limiti fisici legati all’emissione che limita le possibilità fisiche dei cantanti, mentre invece tu lavori molto sul fisico dei tuoi attori.
«Qui a Basilea non ho avuto particolari problemi con i cantanti. Le loro performance sono incredibilmente “fisiche”, complesse e non convenzionali. Non avrei mai spinto i cantanti a fare cose che non si sentivano di fare. Sono stati loro piuttosto a spingersi e a risolvere molti dei problemi. Questo “mito” che i cantanti sono lì a creare ostacoli nel percorso del regista io non l’ho vissuto. Anzi, per me è stato piuttosto il contrario. Li ho trovati tutti molto aperti a sperimentare e cercare soluzioni. Non hanno mai cercato di tirarsi fuori dal mio progetto di regia: la produzione è loro! Credo che il lavoro del regista sia trovare la chiave giusta per la musica. E non sto parlando del modo in cui compositore e librettista hanno concepito il loro lavoro: non è questo che devi fare così per costruire una produzione giusta per la musica. È piuttosto qualcosa di inestricabilmente legato al modo in cui la musica respira, rimticamente, armonicamente.»
Il che fa il paio con quanto tu hai affermato in una recente intervista al Financial Times: “Per me la questione è: come dare rilevanza per il pubblico alle idee che hanno ispirato la scrittura del testo teatrale che si rappresenta?”
«La differenza nell’opera è che la musica è una fortissima traccia. Quando affronti un testo teatrale, la musica è dentro la tua testa. Nell’opera hai una traccia almeno sul colore e puoi decidere che quel colore nel tuo mondo significa una certa cosa. Non si può negare che i canali in cui la gente viene in contatto con la musica classica sono la televisione, la pubblicità, i film. Cioè, spesso il modo di ascoltare la musica oggi è definito più dalle modalità in cui la cultura pop impiega la musica che non da quelle tradizionali dell’opera o della sinfonia. Molta della musica di “Die tote Stadt” al pubblico suona piuttosto come la musica di un film horror o di un thriller degli anni ’40 o ’50 e non solo perché Korngold ha scritto una buona parte di quella musica a Hollywood, ma per come il cinema ha usato quella musica da allora. La questione interessante oggi è: come riportare “Die tote Stadt” a una situazione che non è più quella del film horror?».
Ma l’opera stessa è un horror, no?
«No. Questo è quello che si pensa di solito o il modo di vederla rappresentata. Certo c’è l’apparizione della moglie morta, la sequenza di incubi del protagonista, l’uccisione di Marietta: tutto questo è scioccante! Dall’inizio alla fine c’è una forte tensione fra il crepacuore e la paura della follia, che è uno stato in cui ci si trova quando si prova un dolore profondissimo: si vive costantemente fra la tragedia e la paura di diventare pazzi se si penetra troppo dentro quel dolore. Tutto questo non ha nulla a che vedere con l’idea di “genere” ma piuttosto con l’“essenza” di quella esperienza. Questa è un’esperienza reale che molta gente spesso vive ed è questo che ho cercato di dire nella mia produzione. La cosa bella del genere opera è che è più facile raggiungere uno stato mentale che è precluso da certo teatro realistico o di prosa, che tende a diventare imbarazzante quando rappresenta un sogno o uno stato estremo di follia o di dolore o roba simile. Imbarazzante perché tende a diventare troppo … operistico! L’opera invece ha questa straordinaria valvola di sicurezza che ti dice che il mondo intero è sconvolto e ogni singola parola che ascolti ti dice piuttosto quello che c’è dentro la mente delle persone.»
Theater Basel - Die tote Stadt (trailer)
Hai scelto tu di iniziare la tua esperienza con quest’opera così insolita?
«Di più: ho insisto per farla. Mi piace molto quando la drammaturgia è nella musica stessa. Ci sono almeno un paio di momenti in quest’opera che sono realisticamente troppo lunghi per essere come sono (anche se non come in Mozart, per esempio). In molti casi l’urgenza del pezzo coincide con l’urgenza dell’azione naturale e spesso si espande in una misura che corrisponde ai tormenti del personaggio. L’opera di Korngold è costruita sui personaggi e sul raccontare una storia. La musica stessa si fa carico di molto di quel racconto. Molte opere lo fanno ovviamente, ma questa non è ambientata in Egitto, non ha un “milieu” specifico contro il quale devi lottare come regista. Cioè, come risolvi la spada in “Siegfried”? La spada è scritta “dentro” la musica e quindi non puoi prescindere da essa. Quest’opera invece non ha connotati temporali precisi o un’epoca specifica. Descrive una situazione “primaria”, esattamente come le opere che si basano sulla mitologia greca. Medea è la storia di una donna che uccide i propri figli, o l’ “Affare Makropulos” è sul tempo che passa.»
e “Die tote Stadt”?
«Su un uomo che perde se stesso così profondamente nel dolore per la perdita della moglie che quasi si uccide e quasi distrugge il ricordo di lei allo stesso tempo. E su come riesce ad arrivare all’altra sponda. È sul più cupo cammino che un essere umano può percorrere per recuperare quella energia.»
Rispetto al racconto originale di Georges Rodenbach, l’omicidio di Paul è solo sognato nell’opera. Come giudichi questa scelta?
«Rispetto al testo teatrale di Rodenbach, l’opera ha certamente più di un debito nei confronti di Freud e della popolarità delle sue teorie al tempo della composizione, specialmente l’isteria e l’idea del percorso dentro la parte più oscura dell’anima per sciogliere i suoi nodi e raggiungere l’altra sponda e continuare a vivere. Amo molto questa idea. In fondo, tutte le storie di omicidi diventano articoli di giornale: “qualcuno ha ucciso qualcuno”. Nell’opera il finale è ancora più doloroso, credo, perché più doloroso è sopravvivere.»
Molto spesso gli allestimenti ne hanno sottolineato il taglio cinematografico (e “La donna che visse due volte” è il film più citato). Ci sarà una dimensione cinematografica anche nella tua produzione?
«È vero che il cinema ha avuto un’influenza pesante sulla struttura delle opere composte, dopo la sua invenzione e diffusione, vedi ad esempio “I diavoli di Loudun” di Krzysztof Penderecki con quelle scene così brevi. La tendenza però è cominciata già all’inizio del XX secolo ma anche nell’era post-cinema c’è stato un ritorno a quel tipo di narrazione che era già presente in Shakespeare con le sue battute incredibilmente corte o i “plot” così intrinsecamente cinematografici. È stato piuttosto l’avvento del realismo nel teatro che ha inciso sulla lunghezza delle scene e sull’ambientazione in un singolo luogo. E questo avveniva più o meno una cinquantina di anni prima che Korngold scrivesse la sua opera. È interessante come il grande cinema provi a essere come l’opera e non il contrario.»
Cioè?
«In molto cinema contemporaneo c’è un commento musicale continuo (anche se a volte non ci facciamo caso) e la vicenda assume una valenza “mitica”. Anche il senso di catarsi che molto grande cinema trasmette è qualcosa di molto più simile all’opera che al teatro. Il teatro è qualcosa come “Amleto”: “il resto è silenzio”, cioè è la stanza vuota e silenziosa alla fine del dramma. È quel lento spogliare un personaggio della sua umanità finché non resta completamente nudo. È questo il teatro. In un’opera la voce del compositore è sempre presente. Ti fa entrare dentro allo spazio mentale e andare nei sogni. In fondo, l’opera è come un sogno, così come il cinema è un sogno.»
Parli del sogno e si pensa al “Pelléas et Mélisande” che sarà la tua seconda prova nel teatro lirico. Vedi dei punti in comune fra queste due opere?
«Korngold risponde a tutte le domande. Vuole che tutto sia chiaro e in questo senso è molto più vicino a Wagner con i suoi “ecco perché”, “ecco come” e così via. In Debussy (o Maeterlinck) invece il punto è il mistero, la confusione, l’enigma terrificante. Non sapremo mai da dove arriva Mélisande o qual è la sua storia, così come non sappiamo nulla sul castello, chi governi il regno, dove sia il padre di Pelléas, quale sia la relazione di Pelléas e Golaud con la loro madre … Ci sono così tanti punti interrogativi sospesi. È quasi un oggetto freudiano vuoto, nel senso che non c’è alcuna risposta a ognuno di questi traumi psicologici. Talvolta ci chiediamo perché alcune persone improvvisamente vanno fuori di testa ma non saremo mai in grado di darci una risposta. Puoi avere una relazione per anni con qualcuno che fa cose che ti confondono completamente e non capisci cosa ti tiene insieme. Il “Pelléas” riguarda un gruppo di personaggi che custodiscono dei segreti per il pubblico e questo è molto elettrizzante.»
Cosa bisogna assolutamente evitare nel “Pelléas”?
«È fondamentale evitare ogni forma di romanticismo, perché la musica è già così squisitamente romantica che hai bisogno di compensare. Se pensi ai personaggi nella loro essenza, trascurando alcuni dettagli come i lunghi capelli che scendono dalla torre o roba simile, si tratta di un uomo che obbliga una donna, in un certo senso contro la volontà di lei, a sposarlo, a seguirlo nel suo castello dove la chiude a chiave e la picchia. L’uomo finisce per ucciderla con il suo fratellastro per pura furia omicida. Se vedi una storia così al cinema o la leggi in un articolo di giornale ti viene da dire: “che stronzata!” Credo che l’allestimento debba trasmettere questo, anche se la musica va in senso opposto. Non ci sarà nulla della favola: l’ambientazione sarà molto cupa, una struttura da cui Mélisande non può uscire e in cui non sa com’è arrivata.»
C’è un’opera che non metteresti mai in scena?
«Magari finisco per farla se te la dico! Seriamente, trovo Mozart davvero complicato perché chiunque può dirigerlo. Più lo guardo e più mi domando: perché diavolo si deve mettere in scena Mozart? Non si vede mai una produzione mozartiana completamente soddisfacente. È un po’ come “Amleto” che non è mai buono come l’idea che ti sei fatto prima di vederlo. Tutti sanno cosa si deve fare e cosa non si deve fare in Mozart, proprio come Shakespeare in Inghilterra. Quando è così, non è facile il lavoro per un regista.»
Ma non sei certo un regista che si fa problemi se si tratta di scioccare il pubblico?
«Ma questo non c’entra. L’opera, come tutta l’arte, riguarda la scoperta: lo spettatore si dovrebbe sentire come qualcuno che si risveglia davanti a un’opera d’arte. Se smettessimo di eseguire Mozart o Shakespeare per i prossimi 20 anni, potrebbe ridiventare possibile metterlo in scena. È praticamente impossibile sorprendere con quei grandi maestri e farlo specialmente con le loro opere più famose.»
Mozart a parte, c’è altro che ti porrebbe problemi come regista?
«Anche le opere italiane del XIX secolo le trovo difficili. Adoro ascoltarle ma mi viene da chiedermi: “cosa potrei farci?” C’è bisogno di un regista più politico di quanto non sia io per spingerle fino a dove non ci si aspetta che possano essere. Ma non vorrei che il mio lavoro si riducesse a essere interessante per le persone che lo vedono solo per poter dire: “Oh, non c’erano le sfingi!”. Tipo “Aida” ambientata nello spazio o roba simile. Questo è quello che il “Regietheater” normalmente fa. Lo capisco e lo apprezzo, mi piace vederlo, ma il suo valore è quello di una forma artistica molto elitista perché si rivolge a una spettatore che già conosce tutto e che prova piacere a vedere qualcosa di disgustoso o che gioisce a imbufalirsi. Questo a me non interessa. A me interessa piuttosto una messa in scena che risponde alla musica. Questo impone una certa attenzione a come metti in scena un certo lavoro o rischi di distruggere l’opera.»
Hai citato il “Regietheater”: come lo vedi?
«Di fronte al “Regietheater” ci si divide fra conservatori e radicali senza lasciare spazio fra i due schieramenti. Ma è proprio lì che hai il “grey hat” [Nel linguaggio informatico, il “grey hat” è un hacker che mette alla prova la sicurezza dei sistemi per migliorarli, NdR]. Il “grey hat” non ce l’hai quando sputi su qualcosa ma nemmeno quando lo cospargi petali di rosa. Ce l’hai quando riesci a combinare queste due cose.»
Ci sarà altra opera nel futuro di Simon Stone?
«Farò il “Lear” di Reimann al Festival di Salisburgo nella prossima estate, ma al momento non accetto altre proposte che vadano oltre il prossimo anno. Ho bisogno di una pausa. Ho molte offerte e mi piacerebbe accettarne qualcuna ma non mi va di organizzare la mia vita come ho fatto negli ultimi dieci anni o finirò per non avere mai figli e non scegliere mai un posto dove vivere.»
Ti senti di aver raggiunto la maturità artistica?
«No, quella spero di non raggiungerla mai.»
Stefano Nardelli
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