Federica Michisanti con il suo progetto Trioness nel 2017 ha pubblicato il secondo disco, Isk, un lavoro che resta, e al quale si torna scoprendo sempre cose nuove.
Vuoi per la formula peculiare (il trio è senza batteria, con Matt Renzi alla ance e Simone Maggio al piano), o semplicemente per la pura bellezza delle composizioni, aeree, liriche, rigorose e fluide, naturali.
Abbiamo intercettato Federica in occasione di uno scoppiettante live di improvvisazione a due contrabbassi assieme allo straordinario Roberto Bellatalla al Teatro Magro di Mantova, nell’ambito della bella rassegna You Must Believe in Spring, organizzata dall’associazione 4’33’’ – rassegna che culminerà coi fuochi d’artificio del 25 aprile del live di Bill Frisell e Thomas Morgan a Palazzo Te.
Mi hai detto che nasci come bassista elettrica. Che musica suonavi e come sei passata poi al contrabbasso?
«Rock e progressive rock. E brani originali che scrivevano i ragazzi del gruppo in cui suonavo proprio agli inizi, in quello stile. Successivamente suonai in una cover band dei Led Zeppelin (quanto mi divertivo!) che era il mio gruppo preferito al liceo, e in una dei Beatles, la cui musica eccezionale ho scoperto proprio grazie a quella cover band. Al contrabbasso sono passata successivamente, dopo aver cominciato ad ascoltare la musica strumentale e improvvisata, il jazz. Mi piaceva il suono acustico del contrabbasso, che trovavo più adatto per suonare quel nuovo tipo di musica che ascoltavo e provavo a suonare».
E il contatto con il mondo dell'improvvisazione?
«Uno dei primi dischi che comprai fu Conference of the Birds di Dave Holland, perché di questo contrabbassista sentivo molto parlare nella scuola di musica che frequentavo. Non immaginavo fosse un disco di musica d’avanguardia e ricordo che l’ascolto di quella musica mi rimase impresso. Non capivo cosa succedesse, non avevo riferimenti nell’ascolto ma rimasi molto coinvolta dall’intenzione e dal suono dei musicisti. Quindi, accidentalmente, venni a contatto con il mondo dell’improvvisazione libera subito, ma non sapevo di cosa si trattasse, mi domandavo solo se un giorno sarei stata in grado di suonare anche io in modo così incisivo. Qualche anno dopo nel seminario di specializzazione per trio a Siena Jazz (con Battaglia, Dalla Porta e Sferra) e in quello estivo, nel corso di storia della musica di Zenni, per la prima volta sentii parlare in maniera codificata dell’improvvisazione estemporanea e del pensiero e dell’estetica che anima questo modo di suonare. Ci davano degli esercizi da fare usando i diversi parametri: timbrico, melodico, armonico, ritmico. E con i miei compagni di studio e poi successivamente con Simone Maggio ci esercitavamo in questo senso. Ovviamente di pari passo iniziai ad ascoltare Ornette Coleman, Eric Dolphy, Cecil Taylor, che proprio oggi ci ha lasciato, Anthony Braxton, Charles Lloyd…».
Che tipo di ascoltatrice sei?
«Non riesco a dare una definizione di me stessa in questo senso, ma posso dire che mi piace la musica nella quale succede qualcosa. Quello che mi coinvolge della musica è l’impatto, l’intenzione e il suono più che le singole note».
Come nascono le composizioni, cosa ti ispira?
«La maggior parte delle volte compongo al piano, mi siedo e rimango in silenzio per un po’. Poi inizio con le prime note e mi metto “in ascolto” delle note successive che verranno. Parto sempre dalla melodia in genere, anche se talvolta è successo che mi sia venuta in mente una linea di basso sulla quale costruire il resto, come in “Le Voleur” o “Naturalmente”, due brani del mio primo disco. Ultimamente spesso scrivo a due voci, due linee melodiche che procedono per moto contrario. Mi piace molto far virare la melodia repentinamente in diverse direzioni e lavorare con gli intervalli. E spesso, quando ricavo l’armonia dalla melodia, accade che le note a cantare siano proprio le tensioni forti dell’accordo, la sesta e la settima maggiore negli accordi minori e anche la quarta aumentata; oppure la settima minore o la quinta aumentata sugli accordi di dominante e così via. Altre volte gioco con il contrabbasso e mi appunto delle cose che mi piacciono che son venute fuori da questi momenti. Cosa mi ispiri non saprei dirlo, ma immagino che tutta la musica che ho ascoltato abbia sicuramente la sua influenza».
Ti capita mai di faticare, quando improvvisi?
«Forse posso parlare di una fatica emotiva, perché con l’improvvisazione totale mi sento di espormi interamente al pubblico nel tentativo di entrare in contatto con il mio personale modo di sentire la musica. E la fatica di tenere a bada i pensieri che ogni tanto interferiscono, riguardo il fatto di voler suonare la cosa giusta. Allora magari faccio un passo indietro, mi fermo un po’, non suono, provo ad ascoltare ed a ricollegarmi con la musica e ad abbandonarmi di nuovo».
Con chi ti piacerebbe collaborare in futuro ?
«Voglio sicuramente proseguire ed approfondire la collaborazione che è nata da un po’ con Emanuele Maniscalco, un artista che stimo molto, sia come pianista che come batterista. Ho in mente anche altro, ma prima di parlarne, vorrei mettere meglio fuoco le idee».