Dal giorno dell’inattesa notizia dell’assegnazione del premio Nobel per la Letteratura, Bob Dylan ha continuato a essere contemporaneamente molto visibile, con i suoi dischi di cover, gli innumerevoli concerti, e qualche sparuta intervista, e assolutamente invisibile per quanto riguarda nuova musica originale. Dal 2012 al 2020, ben tre dischi di cover tratti dal Great American Songbook, molte di queste rese popolari da Frank Sinatra, e nessuna notizia, se non sotterranea e accessibile solo alle cerchie più ristrette di fan, su nuove canzoni e nuove visite in studio.
È uscita, a sorpresa, una nuova canzone di Bob Dylan
Poi, il 26 marzo 2020, arriva “Murder Most Foul”, sedici lunghissimi minuti, più di “Highlands” e di “Sad Eyed Lady of the Lowlands”. Più di “Tempest”, la canzone del Dylan maturo e poi antico che più si avvicina a questo nuovo inedito, che per temi ha molto a che fare con quelli che emergono prepotenti in Tempest (il disco, non la canzone), e che per musica, arrangiamento, e resa vocale è passato attraverso il filtro di innumerevoli concerti e dell’esperienza dei tre dischi di standard che, a oggi, rimangono gli ultimi nella sterminata discografia di Dylan.
Ai tempi di Tempest, io e altri che occupano in modo più o meno legittimo l’ampio territorio dei Dylan studies accademici, avevamo notato quanto nella scrittura di Dylan (una scrittura sempre al confine tra il citazionismo spinto e le accuse di plagio) la lettura di Omero avesse ispirato molti versi, ancor più che i richiami a Shakespeare che molti critici vedevano, forse fuorviati dal titolo. In “Murder Most Foul” i due bardi sembrano quasi andare a braccetto, seguiti da Dylan che li usa al tempo stesso come schermo e come fonte della propria legittimità di autore che prende e raccoglie, distribuisce e trasforma, sempre impegnato nella sua missione di ridefinire le coordinate culturali della tradizione americana, quella «marea montante» a cui aveva fatto riferimento in qualche intervista e che rappresenta, più della poesia e della letteratura, lo sfondo sul quale dobbiamo proiettare ogni tentativo di interpretare Dylan, dall’inizio della sua carriera ai giorni nostri.
“Murder most foul” è frase shakespeariana, tratta dall’Amleto, dove il fantasma parla di un omicidio terribile, oltre che “strange and unnatural”. Ma è anche il titolo di un film del 1964, tratto da uno dei gialli di Agatha Christie con protagonista Miss Marple e che, guarda caso, parla di teatro. Delitti efferati, una tragedia che va al di là delle mura del castello di Helsingor, gli anni Sessanta. Queste le coordinate di un Dylan che mischia Shakespeare al tema principale della canzone, l’assassinio del presidente John Fitzgerald Kennedy nel novembre del 1963.
Non sembra esserci quasi spazio per interpretazioni alternative, e la canzone di Dylan, così come la sua quasi-gemella “Tempest”, dedicata alla tragedia del Titanic, inizia dall’evento, da quel “dark day” a Dallas, un giorno di infamia in cui Kennedy fu portato al massacro “come un agnello sacrificale”. Le prime otto strofe sono una broadside ballad aggiornata, una lentissima “Hurricane” per il ventunesimo secolo, e Dylan in effetti riprende presto uno dei versi di quella canzone: “Wait a minute boys, you known who I am”.
C’è molto Dylan, dunque, e c’è anche molta America, al punto che – come spesso accade nell’ultimo Dylan – le due cose tendono a coincidere. Per alcuni versi, si tratta di un’America che crede, o non rifiuta del tutto, una lettura revisionista di uno dei suoi momenti fondamentali, ovvero l’assassinio del presidente della Nuova Frontiera. Ma è anche un’America che cerca di interpretare quel momento alla luce di frammenti che non sono politici ma sono in primo luogo culturali, come se Dylan sentisse il bisogno di narrare quella storia di grandi uomini attraverso immagini che entrano ed escono dal pensiero nello spazio di un momento.
Se questa è la lente che ci permette di leggere tutto Dylan, allora la sua opera – e questa ultima canzone non è una eccezione – contiene moltitudini che sistematicamente rimandano ad altro, in un gioco interpretativo che è molto più sofisticato del ricostruire le sue intenzioni, il suo messaggio nascosto, o la superficie della performance.
“Murder Most Foul” è prima di tutto una canzone omerica.
È per questo che la mia prima impressione, la prima reazione, a metà del primo ascolto è stata che “Murder Most Foul” è prima di tutto una canzone omerica: non si tratta tanto dell’Omero storico, una finzione se mai ce ne sono state, ma della moltitudine di aedi e cantori attraverso i quali si sono sedimentate nell’Iliade e nell’Odissea le formule e le ritmiche di una cultura molto più bassa nelle sue aspirazioni estetiche, che grazie a esse riusciva tanto a cantare degli eventi che a preservare la sua coscienza di sé. Ciò è vero sia per un assedio lunghissimo, sia per un ritorno che sembra non finire mai e in cui la narrativa procede secondo il principio che il viaggio di Odisseo, nella sua mirabile incapacità di tornare al già noto e di scoprire, anche ricercare, l’ignoto, è, come canterebbe Dylan, un caso in cui “There’s no success like failure”.
E dunque Dylan ci parla attraverso le formule e le ritmiche, e lo fa nel suo modo sbilenco, che continuamente ci invita a guardare la luna (l’America) e non il dito (se stesso, Kennedy, la guerra per una donna).
E dunque Dylan ci parla attraverso le formule e le ritmiche, e lo fa nel suo modo sbilenco, che continuamente ci invita a guardare la luna (l’America) e non il dito (se stesso, Kennedy, la guerra per una donna).
Nella sua Nobel Lecture, Dylan conclude un viaggio attraverso millenni di cultura occidentale ancora una volta rifacendosi a Omero: «I return once again to Homer, who says, “Sing in me, oh Muse, and through me tell the story». È una conclusione in cui ancora una volta si trovano insieme Omero, Shakespeare, e Dylan, e quest’ultimo rimarca che «Our songs are alive in the land of the living», le nostre canzoni sono vive nella terra dei vivi. E “Murder Most Foul” ha una sua colonna sonora, quasi che fosse una di quelle puntate di Theme Time Radio Hour attraverso le quali Dylan ha ricostruito tematicamente (come aveva fatto Alan Lomax decenni prima) il paesaggio e l’orizzonte della tradizione musicale americana.
In questo caso, la citazione continua, dal cinema o dalla canzone popolare, costruisce una colonna sonora e un’altra storia, dando vita a un doppio binario: da un lato, abbiamo una storia compressa dell’assassinio di Kennedy, dall’altro fanno capolino pezzi di film e pezzi di canzone, e alla fine – davvero – musica e il resto scompare.
Poche righe e Dylan ci porta in un viaggio (come Omero, come l’Odissea) in un terreno via via caratterizzato solo da note sparse, da versi che possono stare in un blues di Charlie Patton, in un falsetto di Clarence Ashley, in cui il mistero si fa via via più fitto e per questi motivi illuminante. Poche righe e “oggi è un buon giorno per morire”, nativi americani e Piccolo grande uomo. Poche righe e arrivano momenti cruenti che si possono cantare con la stessa musica di “Pay in Blood”, sempre da Tempest. Una serie di immagini che starebbero bene in “Narrow Way” dello stesso Dylan, o in “Killing Floor” di Howling Wolf. Perché “Murder Most Foul” è una broadside ballad ma anche un blues bastardo, e forse è anche un gospel, l’unica cosa possibile dopo il giorno del giudizio, quelle “36 hours past judgement day” che operano una cesura nella canzone.
Prima, poche righe e poche altre ancora, per interminabili minuti di litania, quasi che Dylan abbia aggiornato il Kaddish di Ginsberg a queste ultime ore, ci sono gli anni Sessanta, con i Beatles e Gerry the Pacemakers, Woodstock e Altamont, sparuti frammenti presi non da una lunga diretta televisiva nel 1963, ma da un’auto in corsa per tutti gli anni Sessanta, cambiando stazione fino a quando non si prende un segnale forte e chiaro. E si alternano le formule omeriche della canzone popolare, oltre il brusio:
“The Beatles are comin’, they're gonna hold your hand”
“Ferry ‘cross the Mersey and go for the throat”
“… let the good times roll”
“Tommy, can you hear me? I’m the acid queen”
“Wake up Little Suzie, let’s go for a ride”
Inframmezzate a puro Dylan, ovvero qualcosa che può essere stata scritta ieri o al tempo della guerra civile americana, da Dylan o da un soldato alla sua ultima lettera a sua madre, e a un certo punto arriva, non portata dal vento ma via con esso, una semplice affermazione di noncuranza: “Frankly, Miss Scarlet, I don't give a damn”.
Ognuna di queste citazioni appare e scompare, fino a quando tutto non converge in una Babele di suoni, quando tutto è finito. Dalla gioventù di Dylan e da American Graffiti appare un DJ, Wolfman Jack, Lupo solitario, che nel film di Lucas trasmetteva dal mezzo del nulla e che qui invece, in una nuova Babele, parla col dono delle lingue, in un linguaggio divino come solo la musica, la canzone possono essere. E qui la monotonia di Dylan elenca una lunghissima playlist, una colonna sonora per l’apocalisse, un linguaggio comune come unica consolazione per la fine dell’innocenza.
La monotonia di Dylan elenca una lunghissima playlist, una colonna sonora per l’apocalisse, un linguaggio comune come unica consolazione per la fine dell’innocenza.
Ma qui, canzone dopo canzone, citazione dopo citazione, siamo già fuori dagli eventi, tocchiamo gli anni Settanta con Billy Joel (“only the good die young”) e Don Henley e gli Eagles (e pensiamo anche a “The End of the Innocence”, suonata spesso dal vivo da Dylan, più di un decennio fa), e territori più oscuri del folk (“show me the place where Tom Dooley was hung”), la “Saint James Infirmary” che da qualche parte si è trasformata in “Blind Willie McTell”, e una schiera di cantanti blues, musicisti jazz, e un pantheon di morti resi immortali grazie al fatto che “our songs are alive in the land of the living”.
C’è l’America profonda, in queste canzoni: Bob Wills che suona “Take me Back to Tulsa” con i Texas Playboys, un coro gospel bianco che canta “The Old Rugged Cross”, Nina Simone, Elvis Presley, Little Richard e Beethoven, Woody Guthrie e Hoagy Carmichael.
Anche solo scoprire ogni citazione, ogni nuova canzone, ogni collegamento, fino all’invito finale di suonare proprio la canzone appena ascoltata, “Murder Most Foul”, prenderebbe dei giorni, e già circola una playlist di 64 brani menzionati o suggeriti dal testo.
Ma più che l’esercizio da detective, in questa ricerca che ci porta sempre un po’ più in là (ancora l’Odissea, come stato d’animo) e mai vicini a dove dovremmo essere, c’è la capacità di Dylan di tenerci sul filo, ignari di cosa può succedere dopo: quale canzone, quale pezzo di mondo scoprire?
In “Highlands”, il pezzo che – con “Tempest” - forse più di tutti nella sua produzione somiglia a questo regalo ai fan (un regalo che alcuni già cominciano a leggere come un mezzo addio), Dylan descrive questa ricerca come una lunga camminata; qui invece si sta fermi, ed è la musica – una volta che si sia trovata la stazione giusta – a prenderci e portarci via. Brano dopo brano, lo sguardo sul presente si affievolisce, e forse qui sta l’unica cosa che possiamo prendere e portare a casa, in giorni di chiusura e isolamento. E, per quanto non vi sia uno sguardo sul futuro – non è un mondo in cui “andrà tutto bene” – almeno il passato, la musica del passato, l’America immaginata e la sua musica, riescono a dare qualche attimo per pensare.
E, per quanto non vi sia uno sguardo sul futuro – non è un mondo in cui “andrà tutto bene” – almeno il passato, la musica del passato, l’America immaginata e la sua musica, riescono a dare qualche attimo per pensare.
Andrea Cossu è Professore associato di Sociologia all’Università di Trento. Su Bob Dylan ha pubblicato It Ain’t Me, Babe: Bob Dylan and the Performance of Authenticity (Boulder, Paradigm, 2012; London, Routledge, 2015), e altri lavori sulla ricezione in Italia di Dylan e sul rapporto tra Dylan e la memoria culturale.