Cristalli liquidi – titolo del disco e nome del progetto – è uno strano gioco di specchi intorno all’italo wave e alla canzone italiana degli anni Ottanta. Cristalli liquidi è anche una band-che-non-è-una-band, ma che per un po’ ha finto di esserlo: è, in realtà, un progetto solista del producer veneziano Guglielmo Bottin (con qualche collaboratore fisso come Alexander Robotnick e Polosid).
Dal 2012, Cristalli liquidi/Bottin ha pubblicato singoli in vinili di brani propri, cover e finte cover, cover che fingevano di essere i brani omaggiati e non gli omaggianti (come nel caso di “Volevi una hit”, concepita come l’oscuro brano italiano ispiratore di “You Wanted a Hit” degli Lcd Soundsystem). Il primo LP omonimo è uscito a fine 2017 per la label olandese Bordello a Parigi, e regala – cosa rara – quaranta minuti di ottima musica capace da sola di generare ore e ore di scavo su YouTube.
Se i suoni del disco, ormai evidentemente storicizzati, evocano già da soli un mondo retrò, la scelta delle canzoni scoperchia una vaso di Pandora di repertori che non si conoscevano o che giacevano nascosti in qualche neurone della nostalgia: il Pappalardo più surrealista con i testi di Panella (accostato al Battisti di “Tubinga”), gli Stadio, il Venditti di “Questa insostenibile leggerezza dell’essere”… e i brani originali: saranno veramente originali, o saranno anch’essi cover di qualcosa che non si conosce e non si ricorda? Per come parlano quel particolare “dialetto” della lingua della canzone italiana, davvero unico e che non ha quasi mai vantato tentativi di imitazione, potrebbero essere anch’essi manufatti d’epoca.
È proprio questo strano rapporto bidirezionale con il proprio modello di riferimento che fa di Cristalli Liquidi qualcosa di diverso dal solito progetto retromaniaco a cui siamo abituati: e in mezzo a tanti progetti tutti uguali, è una gioia imbattersi in oggetti così difficili da identificare, e che invogliano a un ascolto attivo, allo scavo, alla riflessione.
Abbiamo chiacchierato con Bottin di Cristalli Liquidi, e ci siamo fatti consigliare qualche nuovo tesoro da riscoprire.
Nel disco ci sono alcune cover più o meno oscure, e altri brani di provenienza più difficile da tracciare… Per esempio, “Canzone registrata”: in che rapporto è con il brano di Pappalardo da cui è stata ispirata? Oppure, “Volevi una hit” con “You Wanted a Hit” degli LCD Soundsystem?
«“Canzone registrata” è la cover di “Caroline e l’Uomo Nero”, autori Pappalardo/Vanera. È fedele alla ricetta originale, per quanto riguarda il testo di Pasquale Panella: è rimasto sulla bilancia solo un verso, un verso e mezzo per motivi di arrangiamento. Inoltre non ho cantato i “Caroline” che giustificavano il titolo originale, che ho quindi messo tra parentesi (“Caroline e L’Uomo Nero”) perché volevo spostare l’attenzione sul sottotitolo (“Canzone Registrata”). L’ho fatta sentire a Panella che ha risposto con un “La ringrazio molto”. Penso che le variazioni non siano state irrispettose, per quanto una canzone non chiede mai rispetto e reverenza, altrimenti diventa Messa cantata».
«“Volevi una Hit” ha seguito un percorso diverso per giungere poi a un risultato in apparenza simile al precedente. Volevo creare un falso storico: un brano italo disco retrodatato 1984 che gli Lcd Soundsystem avrebbero preso per fare la loro “You Wanted a Hit”. È iniziata col tentativo traduzione letterale del testo in Italiano, ma come spesso accade con gli adattamenti dall’inglese, la canzone mutante e ha preteso parole nuove, una nuova identità. Anche la melodia si è ribellata al ricalco e infatti il ritornello è completamente differente da quello americano. L’argomento esplicito di “Volevi Una Hit” è quello del rapporto tra artista, produttore e successo. Invece è una canzone sull’insuccesso amoroso, sui ruoli assunti a turno dagli amanti: chi fa il fiore e chi il giardiniere. Il testo di James Murphy parlava invece del rapporto con un pubblico infante che vuole spesso menestrelli addomesticati e brani da classifica. Prima di pubblicarla l’ho fatta sentire a James Murphy che l’ha approvata, seppure informalmente. Volevi una hit figura quindi come brano originale di Bottin-Murphy-Doyle. Canzone registrata e canzone derivata».
Oggi la musica degli Ottanta (tanto l’Italo disco quanto la canzone) è riletta soprattutto attraverso la lente della nostalgia, e spesso apprezzata grazie a essa. Pensi sia così anche per il tuo approccio? O c’è una via di fuga da questa costante ricerca di emozioni nel passato che però, mi sembra, lascia un po’ in secondo piano la riscoperta di quanto di buono c’era nella musica tout court?
«Non ho nostalgia dell’italo disco, che ritengo per lo più musica spazzatura ad eccezione di venti o forse trenta brani capolavoro, anche oggi superiori a molta musica da ballo più moderna. La nostalgia è semmai per certi suoni elettronici un po’ ingenui che negli anni Ottanta han fatto vibrare i miei timpani di bambino. È nostalgia per la semplicità che ci si poteva permettere allora più di ora. Un riff, un coretto italo disco è diretto e sfrontato. Ora c’è spesso molta sovrastruttura, suoni pesantemente stratificati che servono a coprire complicate banalità».
In un’intervista a Soundwall riflettevi su quanto i testi di questo filone della canzone italiana siano alieni da quello che propongono oggi molti nuovi cantautori, con brani spesso incentrati su narrazioni generazionali o sul guardarsi l’ombelico, diciamo così. Ho sempre pensato che questo filone di canzone degli anni Ottanta (ma anche Novanta, in parte), su tutti il Battisti panelliano, sia stato una specie di vicolo cieco nella storia della canzone italiana. È veramente così? Ti sei dato una spiegazione?
«I dischi di Battisti/Panella non assomigliano a nulla. Molti tra coloro che li amano li fraintendono: li considerano materiale per iniziati e ne fanno esegesi veterotestamentarie. Sono canzoni che volutamente sfuggono alla ricerca di senso e di mercato, inutile provare a inseguirle. Anche nella raccolta di cover di Battisti/Panella L/BR (La Bellezza Riunita, uscita da poco per Lacerba/Audioglobe) alcuni degli artisti che hanno partecipato ci hanno messo una gravitas e un pathos a che a mio avviso cadono pesanti come pere sulla leggerezza degli originali».
«Esiste però tutto un filone della canzone italiana degli anni Ottanta che come dici è una strada non più battuta dagli autori di testi. Un produttore di pop italiano, il più importante e ubiquo di questi anni, dice che ora si cercano testi più sanguigni, da sceneggiata. Poi però escono diarietti, letterine in prima persona singolare. Nella cosiddetta musica indie o alternativa – ma poi alternativa a cosa? – è quasi tutta una narrazione generazionale, in cui anche artisti ormai adulti cantano con parole da adolescenti, talvolta ricorrendo al volgare, sventolato come vessillo di libertà. Personalmente trovavo assai più liberi e indipendenti i testi di Bigazzi per Umberto Tozzi, in cui il verso più triviale era comunque un “guerriero di carta igienica”».
Parliamo degli inediti del disco. A un primo ascolto, si ha molta difficoltà a distinguere tra ciò che è nuovo e ciò che è cover o pseudo-cover. Immagino sia una strategia ricercata…
«Nessuna strategia, per la verità anche le pseudo-cover riprendono brani tra loro molto diversi. Antonello Venditti, il Battisti di Hegel, gli Stadio e gli Lcd Soundsystem non mi pare siano collegati o assimilabili. Sono però finiti dentro lo stesso apparato di arrangiamento e canzonature, quello che ho utilizzato anche per realizzare i brani scritti da me. Due degli originali sono stati scritti insieme a Maurizio Dami (Alexander Robotnick): il provino di “Assolvi Lei” è suo (io ho cambiato parte del testo e della musica e fatto l’arrangiamento). La base strumentale di “Sciame” è tutta di Robotnick, solo il testo è mio. “Miti Ellenici” è cronaca vera e racconta di una certa mia vacanza in certe isole greche con una certa persona. “Restare Andare” è l’evoluzione di un disco strumentale (Arreboles) che avevo precedentemente realizzato per una etichetta californiana (Chit Chat Records).
Vorrei chiederti del sound. C’è una “pacca” italo-wave molto credibile, ma allo stesso tempo diversa, evidentemente attualizzata. Che cosa hai usato? Quali sono gli strumenti che “suonano Italo-wave”?
«A parte “Questa insostenibile leggerezza dell’essere” che è stata arrangiata da Polosid con mezzi a me ignoti, per gli altri brani ho utilizzato principalmente un Juno 6 e un SH-09, vecchie macchine Roland. Per gli archi sintetici un italianissimo Farfisa Syntorchestra. Robotnick su “Sciame” penso abbia utilizzato sempre un Juno ma anche un Oberheim Two Voice. L’effetto italo-wave a cui penso tu faccia riferimento è ottenuto anche scegliendo di fare arrangiamenti molto scarni: una manciata di tracce, pochissime variazioni».
Vorrei chiudere con una richiesta … Scegli per i nostri lettori 5 brani oscuri da riscoprire di quel periodo della canzone italiana? 5 brani che potrebbero essere il lato b del prossimo disco di Cristalli Liquidi…
«Queste 5 potrebbero essere un lato B del prossimo Cristalli Liquidi, ma probabilmente non lo saranno anche perché non vorrei mai rivelare le mie vere intenzioni».
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