Corde e canzoni

Alessia Obino e il progetto CORdas, alle radici della musica americana: l'intervista

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jazz

Pur essendo musicista di grande esperienza e sempre molto attiva, non sono molti i dischi che la cantante Alessia Obino ha pubblicato a proprio nome, a testimonianza di una sensibilità musicale riflessiva e profonda, non troppo disposta a presenzialismi e occasionalità.

Per questo motivo, ma come vedremo non solo, l’uscita di Deep Changes, nuovo disco per l’etichetta Caligola a nome del progetto CORdas, mi sembra richieda una certa attenzione. In questo lavoro infatti, la musicista esplora alcuni percorsi della musica afroamericana e americana in genere conficcando per bene dita e piedi nella terra, ritrovando un contatto con pratiche e forme anche delle origini, connotandolo timbricamente (grazie a una formazione che, lo dice il nome, usa esclusivamente strumenti a corda, dal violino al banjo, alla chitarra…) per andare dritto al cuore dell’espressione musicale.

Ne viene fuori un lavoro felicemente indefinibile, in cui si riallacciano le tensioni al recupero del pre-war folk (che già avevano caratterizzato la scena di artisti e ascoltatori indie una decina di anni fa) e la forza della tradizione compositiva di area blues-jazz, in cui l’utilizzo dell’elettronica – e diremmo in generale l’obliquità dell’approccio – suggerisce perturbanti slittamenti di senso.

Era l’occasione per fare anche una bella chiacchierata con Alessia Obino e farci spiegare da lei molte cose su questo bel progetto.

Come nasce il progetto CORdas?
«Il progetto CORdas nasce nel 2011 dal mio incontro con i chitarristi Domenico Caliri ed Enrico Terragnoli. L’idea che sin dal principio ha animato la mia ricerca è stata quella di ripercorrere alcuni brani di autori che stavo approfondendo in quel periodo, ma nel corso degli anni varie letture ed esplorazioni mi hanno avviata verso un percorso a ritroso, che è partito dagli autori di sempre sino ad arrivare ai blues arcaici».

Ci racconti un po' i tuoi compagni di avventura?
«Premetto che io sono cresciuta musicalmente grazie all'interazione con altri musicisti, non mi sono mai identificata con il ruolo della cantante che propone un repertorio a strumentisti "accompagnatori", mi piace pensare che siamo tutti sullo stesso piano e che ognuno contribuisca in maniera personale all'esperienza musicale condivisa.
Normalmente parto da un'idea di repertorio, immagino un suono, di conseguenza ipotizzo una formazione ed avvio una collaborazione che spesso si protrae per alcuni anni prima di concretizzarsi nella realizzazione di un disco. CORdas, come altri miei gruppi, ha subito questo tipo di evoluzione. Per un lungo periodo io Domenico ed Enrico abbiamo suonato in trio (talvolta anche in duo), strutturando via via il repertorio e gli arrangiamenti, sperimentandoli in varie forme, finché ho sentito l'esigenza di annettere una nuova "voce", quella del violino. Poiché avevo già suonato con Dimitri Sillato in diverse formazioni è stato naturale inserirlo nel gruppo trasformando il trio in quartetto. Con l'aggiunta del violino le energie tra noi si sono ridistribuite mentre la sonorità generale si caratterizzava sempre di più in senso acustico. Nel 2014 con il subentro di Giancarlo Bianchetti (un altro musicista con cui avevo già condiviso diverse esperienze musicali) entra in scena l’utilizzo dell’elettronica da parte di tutti e si aggiorna nuovamente il suono complessivo, che diventa più visionario e straniante».

Come lavorate assieme? Come spesso accade nelle mie formazioni, in cui ognuno ha un ampio margine di libertà, l’opportunità della registrazione in studio ha generato un’ulteriore svolta trasformando CORdas in un contenitore di suggestioni che si muovono attraverso vari idiomi musicali e diverse identità sonore. Il tal senso, la musica mi si è palesata piano piano, disvelando un processo di maturazione che ho compreso essere insieme umano e musicale. Esperienze fatte all’interno di "contenitori altri" mi avevano già dato l’opportunità di approfondire un linguaggio più personale ma con CORdas l’opportunità si è trasformata in urgenza e gioco. Così si sono sovrapposte evocazioni di ascolti del passato e del presente che, rimescolandosi in varia maniera, mi hanno indicato il percorso futuro».

Parliamo ora un po' degli autori che affronti, a partire da Kurt Weill, compositore alla fine non troppo frequentato, al di là di alcuni classici. Come hai scelto i due temi di Weill e perché?
«In passato quando volevo approfondire lo studio di un autore ero solita dedicargli una sorta di monografia. La mia formazione in ambito letterario (sono laureata in Lingue e letterature straniere) mi porta da sempre a considerare aspetti biografici e storici prima di tutto e in un secondo momento mi occupo del repertorio. Una volta individuato quest'ultimo cerco di trascrivere il più possibile così da avere piena conoscenza del materiale che voglio utilizzare. Sono sempre stata attratta della musica di Kurt Weill che avevo conosciuto in primis al liceo attraverso l'opera di Bertolt Brecht. Poiché 2011 avevo iniziato a lavorare ad un progetto in duo con Paolo Birro, ho colto l'occasione per tentare un primo approccio a questi contenuti concentrandomi particolarmente sulla fase americana della produzione di Weill. Poiché il duo piano voce aveva già fortemente caratterizzato l'esecuzione dei grandi interpreti di questo repertorio, ho pensato che un ensemble come quello di CORdas potesse conferirgli una rinnovata freschezza. A dire il vero questo tipo di operazione è già stata fatta in passato ed è testimoniata da due dischi che apprezzo molto e che non sono sfuggiti alla mia attenzione, un è il tributo Lost in the Stars: the Music of Kurt Weill di Hal Willner, l’altro è 20th Century Blues, un album live del 1996 di Marianne Faithfull, che già aveva partecipato al primo. L'idea di "Lonely House" mi era stata suggerita anche da celebri interpretazioni di cantanti jazz che adoro da sempre cioè Betty Carter ed Abbey Lincoln mentre "The Saga of Jenny", mescolandosi per puro caso al testo di "My Ship" citato nell'introduzione, ha acquisito una sua identità proprio in studio di registrazione».



Di Charles Mingus troviamo un capolavoro come "Sue's Change"s, una composizione molto articolata cui sei riuscita secondo me a dare una differente coerenza, donandole un mood quasi onirico. Come l'hai pensata?
«Mingus insieme a Elligton, Strayhorn e Monk è uno dei miei compositori preferiti. A lui avevo dedicato la mia tesi di triennio ed altri approfondimenti fatti in conservatorio. Trovo che la musica di Mingus raccolga molte delle suggestioni che mi affascinano in ambito jazzistico, rimescolando aspetti arcaici di questa musica, alla tradizione, al jazz modale, al free, oltre a essere fortemente debitrice al mondo compositivo ellingtoniano appunto. Spesso soffro il fatto di non poter eseguire brani che nascono in forma strumentale dunque avvio, normalmente con grande scetticismo, un primo tentativo di scrittura del testo. Una volta superati i vari livelli di censura che mi auto infliggo, mi convinco che la cosa possa funzionare e il gioco è fatto! Per quanto concerne "Sue's Changes" inizialmente trovavo difficile scrivere un testo coerente considerando la lunghezza e la varietà del brano ma proprio il titolo mi ha suggerito un'alternativa. Come tutti sappiamo Sue è stata l'ultima moglie di Mingus, donna di un certo spirito e temperamento. In tal senso il termine "changes" mi sembrava allusivo sia al significato di cambi o giri armonici che a quello di mutamenti di umore. L'identificazione con la variabilità degli stati d'animo del femminile è stata ovviamente automatica e il testo è nato così, come un pensiero errante che vaga dalle riflessioni del mattino, all'incupimento della nostalgia d'amore, alla digressione filosofica sul senso dell'esistenza e così via».

In "Hard Time Killing Floor Blues" di Skip James c'è l'apporto di un artista marocchino come Reda Zine e del percussionista di Danilo Mineo, che nelle liner notes ringrazi per averti insegnato molte cose sulla cultura Gnawa. Come sono collegati questi due mondi?
«Come ho detto in precedenza negli ultimi anni i miei approfondimenti in ambito jazz sono partiti dagli autori di sempre per riportarmi, attraverso un percorso a ritroso, ai blues arcaici e alle testimonianze musicali provenienti dal Delta del Mississippi. Il ritorno alle origini mi ha permesso di individuare un filo conduttore che accomuna molte delle musiche da cui sono attratta, tracciando la “geografia” di un itinerario che dagli Stati Uniti si dirige verso il Sud America e l’Africa.
In questo periodo di lunga gestazione si collocano la collaborazione con Danilo Mineo e Reda Zine e l’occasione di un viaggio in Marocco. Per quanto concerne la comunanza tra la cultura Gnawa, il blues, il jazz e ovviamente anche il rock, mi si è essa stessa palesata sul piano dei contenuti musicali, attraverso l'ascolto. Parlo di elementi come l’ utilizzo di scale pentatoniche, l’intonazione di melodie che non fanno capo al sistema ben temperato, gli aspetti polimetrici, le strutture melodiche call and response, oltre a espedienti di tecnica chitarristica e di articolazione vocale. Alcune letture e documentazioni video mi hanno poi permesso di confermare questa ipotesi, in particolare la serie di documentari intitolata The Blues prodotta da Martin Scorsese. Ogni episodio è incentrato sulla storia dell'evoluzione della musica blues ed è diretto da un diversi regista tra i quali Wim Wenders e Clint Eastwood. Consiglio la visione di questi film a tutti gli appassionati di jazz, blues e rock».

Qual è complessivamente, secondo te, l'attualità di queste composizioni?
«Trovo che molta della musica che si ascolta e si produce oggi sia ancora debitrice di certi retaggi del passato, come se un'anima mundi pervadesse di se tutte le espressioni più alte dell'intelletto e dello spirito. C'è un filo sotteso che accomuna mondi musicali apparentemente lontani, una trama invisibile che parla al cuore di coloro i quali sono alla ricerca di un messaggio di verità, amore e spiritualità».

Che tipo di lavoro trovi utile fare per affrontare un repertorio che comunque porta con sè una profonda distanza culturale con noi?
«Certamente conoscere i presupposti storici, sociali e antropologici da cui nascono tali espressioni artistiche è fondamentale per poterli collocare come espressione dell'umano. Tutto il resto, per me, passa attraverso "l'immedesimazione" o addirittura "l'identificazione" con temi che sono propri dell'essere in quanto tale e in tal senso eterni».

"Nighttime" è l'unico brano firmato da te su testo di Max Ambassador, come nasce?
«Avevo scritto questo brano per un altro quartetto dove era presente la batteria, con l'intento di riproporre una forma melodico-armonica standard e renderla ironicamente un po’ zoppicante. Nella versione di CORdas l'idea ritmica del tema principale risulta meno evidente per i tipo di ensemble, mentre ha acquisito più spessore la coda finale in cui voce e violino espongono una melodia ciclica all'unisono. In questa sezione del brano l'idea di ciclicità voleva restituire la suggestione del sogno allucinato che mi sembrava di evincere dal senso del testo. Il bel poema di Max era nato direi per un altro utilizzo, essendo più legato al mondo hip hop e del freestyle ma per me è stato molto divertente decontestualizzarlo e fare un operazione contraria rispetto a quella che è normalmente la mia maniera di procedere rispetto ai testi. Di solito parto dalla musica e poi scrivo un testo mentre in questo caso l'incedere ritmico delle parole mi ha suggerito spunti per la melodia. Mi piace molto lo stile di scrittura di Max e spero di collaborare con lui anche per il prossimo disco».

Devo dirti che trovo che la musica di CORdas sfugga un po' alle definizioni: è pubblicata da un'ottima etichetta jazz come Caligola, ma non la vedrei male nemmeno in un ambito indie-folk, dove forse raggiungerebbe anche comunità di ascoltatori differenti. Quali sono le tue riflessioni in questo senso?
«Una volta registrato il disco ho pensato la stessa cosa, ma non sono più aggiornata riguardo alla scena indie-folk italiana. Nel 2010 avevo già registrato il mio primo disco di brani originali per Caligola e ho fatto una scelta di continuità. Siamo comunque disponibili per eventuali compilation! Molte persone associano il suono del disco e del live a immagini, mi piacerebbe molto che alcuni brani fossero utilizzati come colonna sonora ad esempio».

A cosa stai lavorando oltre alla promozione di CORdas?
«Da circa quattro anni sto lavorando a un nuovo progetto che ho intitolato "A sound's a million shapes", più che il nome di un gruppo direi una dichiarazione di intento, quello di mescolare con grande libertà influenze provenienti dal jazz, free, rock, soul e nu-soul e direi in generale dalla black music. Ho cercato di muovermi all'interno di questi contenuti in maniera del tutto personale, sia attraverso la composizione di brani originali, che attraverso ardite rivisitazioni.
In questo caso la scelta del repertorio è stata in parte legata ad una collaborazione avviata ormai da anni con un'anima bella di cui non voglio rivelare granché finché non vedrò questo progetto realizzato. Siamo in procinto di registrare, ma non lo dite a nessuno».

Cosa ascolta Alessia Obino in queste settimane? «Questa settimana: Early Ellington and Louis Armstrong, gli australiani Hiatus Kaiyote e Prince.

La foto di apertura è di D. Mezzalana/Fotoclub Padova

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