Dopo il grande successo di pubblico e critica del 2011, la Monnaie ripropone il grand opéra di Giacomo Meyerbeer Les Huguenots per la regia di Olivier Py con un cast rinnovato, sul podio stavolta il maestro Evelino Pidò.
Maestro Pidò, è la prima volta che dirige Les Huguenots?
«Si, ma un mio primo incontro con Meyerbeer c’è già stato qualche anno fa proprio qui a Bruxelles con Robert Le Diable in forma di azione scenica, e il sovrintendente della Monnaie, Peter de Caluwe, ci teneva molto che continuassi questo filone. Ho scoperto un compositore a sé stante nel panorama dell’epoca, che ha creato di fatto il grand opéra, anche se con le anticipazioni di Auber e Rossini, ai suoi tempi molto acclamato e rappresentato, anche se alcuni suoi colleghi erano contrari al suo modo di scrivere ed ai suoi soggetti, come questo degli Ugonotti, lo scontro di religioni, che è ancora molto attuale, con in primo piano un amore impossibile tra un cattolico e una protestante».
Proponete la versione integrale?
«Si, utilizziamo l’edizione critica con pochi tagli. Meyerbeer era molto attento e la sua musica la possiamo definire un mélange di stili che è riuscito a riunire con maestria: dal repertorio romantico tedesco, sopratutto l’aspetto armonico, alle melodie del belcanto, ha appresso tanto da Rossini a Napoli, al gusto francese. Dal punto di vista strumentale quindi Les Huguenots sono molto interessanti a livello armonico e melodico, con combinazioni timbriche che danno tavolozze di colori importanti, mettendo in risalto l’orchestra che è assolutamente protagonista, coinvolta in tutte le sue sezioni, con difficili assoli, come la cadenza del flauto, e l’utilizzo anche di nuovi strumenti per l’epoca come il clarinetto basso, utilizzato nella scena finale dell’atto V, od antichi come la viola d’amore, ricordiamo che Meyerbeer ha studiato tanto anche la musica del Cinquecento e Seicento. L’orchestra ne è galvanizzata, ma il problema è che è difficile mantenere la concentrazione per quattro ore e un quarto».
Quali trova siano le caratteristiche dell’Orchestra della Monnaie?
«Il direttore musicale è importante e Alain Antinoglu ha fatto un buon lavoro, ma è altrettanto importante che il maestro ospite sia bravo. Io dico sempre che non ci sono cattive orchestre, ma cattivi direttori d’orchestra. Quella della Monnaie è un’orchestra, ma anche il coro, di incredibile disponibilità, con ricambi giovani importanti che si stanno inserendo molto bene. Sono due masse artistiche, l’orchestra e il coro, veramente di qualità».
Come trova Les Huguenots da un punto di vista vocale?
«Ci sono davvero momenti molto belli come il duetto tra Valentine e Raoul, musicalmente e drammaturgicamente parlando veramente fantastico, e poi gli ensemble, il coro è pure protagonista. Meyerbeer era attentissimo alla parte vocale e tratta, a volte, le voci come degli strumenti con delle cadenze che sono atletismo puro vocale che sottopongono i cantanti a difficili acrobazie».
Qual’è il suo rapporto con i cantanti?
«Amo lavorare con loro, il direttore è il maestro che dovrebbe insegnare, dare qualcosa in più ai cantanti e al coro. Oggi purtroppo è sempre più difficile che i direttori d’orchestra sappiano concertare, che lavorino al pianoforte le prove musicali con i cantanti, che spieghino il perché delle loro osservazioni. La chiave del successo di una produzione è invece proprio la complicità che si crea tra i cantanti stessi e il direttore d’orchestra».
Come ama lavorare con i registi?
«E’ un rapporto tra due personalità, ma io vengo dalla vecchia scuola per cui il direttore è comunque il numero uno di ogni produzione. A me piace collaborare però, secondo me, oggi ci si sta spingendo oltre misura, a volte si vuole solo creare lo scandalo per far parlare di sé. E’ giusto che le regie moderne siano innovative, non imbellettate, apportino un nuovo approccio, si possono fare delle varianti, ma che siano convincenti, senza andare contro la volontà del compositore, senza stravolgere a livello drammaturgico e acustico l’opera. Siamo noi tutti, lo dico spesso ai miei artisti e lo dovrebbero capire anche i registi, interpreti, “servitori”, di questi geni che avevano una visione musicale e anche teatrale pazzesca».
Quali altre opere le piacerebbe dirigere per la prima volta?
«La Turandot, che dirigerò per la prima volta fra due o tre anni, ancora non posso dire dove. E poi Pelléas et Mélisande, dato che io dirigo anche molto repertorio francese. Sicuramente continuerò con il Belcanto, dopo i grandi studi che ho fatto da ragazzo, ho fatto molto Mozart, mi chiedono oggi molto nel mondo anche il Verismo. Mi piacerebbe un giorno dirigere pure La fanciulla del West, adoro Puccini, e per curiosità anche Les pêcheurs de perles».
Le piacerebbe dirigere un’opera contemporanea?
«Si, l’ho già fatto da ragazzo, sono sfide interessanti. Ma mi piacerebbe che, quando un teatro fa una commissione, essere in contatto il compositore, per capire cosa realmente vuole, non semplicemente ricevere poi la partitura a casa».