Battles
La Di Da Di
Warp
Costruire musica come fosse un rompicapo. Del resto, le radici del "battagliero" trio di Brooklyn sono situate nell'esperienza del cosiddetto rock matematico, o - per usare un'espressione da esperti - "math rock". Nel disco con cui esordirono otto anni fa, Mirrored, tale attitudine era controbilanciata però da una maggiore capacità comunicativa: difficile dire se ciò dipendesse dalla presenza in formazione di un quarto incomodo (Tyonday Braxton, figlio del grande Anthony), fatto sta che dopo la sua defezione nel 2010 quell'ammirevole equilibrio fra ambizione concettuale e un ragionevole grado di accessibilità è andato perduto. Nel precedente Gloss Drop (2012) l'intervento in voce di alcuni ospiti - da Kazu Makino dei Blonde Redhead a Gary Numan - dissimulava in qualche modo il problema, mentre l'impianto totalmente strumentale del nuovo lavoro finisce viceversa per evidenziarlo.
Ovviamente in La Di Da Di non mancano episodi pregevoli, dall'algebrico impulso electro di "Dot Net" al groove ciondolante e quasi reggae di "Megatouch", ma l'effetto d'insieme che l'album trasmette è di un eccessivo autocompiacimento da parte dei suoi artefici, simile a quello tipico di artisti alle prese con linguaggi sovente imprigionati da eccessi di formalismo, come la fusion (vedi qui "Summer Simmer") o il progressive (verso cui tende "Tricentennial"). Potremmo chiamarla "sindrome da primi della classe", volendo: impegnati a mostrarsi tecnicamente abili e creativamente ingegnosi, i Battles confezionano brani complessi quanto sessioni di Tetris, dimenticandosi che un disco non equivale necessariamente a un numero della Settimana enigmistica.