Per avere un esempio tangibile di quanto contano le persone nei processi culturali accanto alle migliori pratiche strategiche – è bastato ritagliarsi qualche giorno in un inizio di aprile dal sole ancora un po’ incerto e venire a Bisceglie, a pochi chilometri da Bari, Puglia.
È qui che, più di 15 anni fa, Marco Valente ha iniziato l’avventura dell’etichetta Auand. Ed è qui che ha voluto radunare una trentina di musicisti jazz italiani per una originale residenza diffusa i cui significati vanno ben al di là della somma delle singole progettualità intraprese.
Laboratorio aperto, interfaccia tra la musica e i luoghi della cittadina pugliese, momento di incontro e di scambio, condivisione di idee e di affinità che mi sono sembrate in grado di restituire un “sentimento” che potremmo definire generazionale, se solo questa parola non risultasse un po’ riduttiva in relazione non solo alla presenza di musicisti di età differenti, ma anche in rapporto alle aperture che questo sentimento offre.
Alcuni dei giovani jazzisti italiani che in questi ultimi anni si sono messi in luce con il pubblico (in parte anche nuovo) e con la critica più attenta, sono qui. E va dato certamente merito a Marco Valente (che non a caso vanta sette vittorie in quindici anni nella categoria “nuovo talento” del Top Jazz di "Musica Jazz") di avere sempre puntato su artisti non ancora affermati – il primo in ordine di tempo fu Gianluca Petrella – ma portatori di straordinarie qualità musicali e di una capacità di leggere la contemporaneità con sguardi sempre nuovi.
Francesco Diodati, Filippo Vignato, Francesco Ponticelli, Simone Graziano, Matteo Bortone, Federico Pierantoni, Manlio Maresca, Enrico Morello, Giulio Stermieri, ma anche musicisti anagraficamente più maturi come Piero Bittolo Bon, Zeno De Rossi, Stefano Risso, Gabrio Baldacci, Mirko Signorile, Alfonso Santimone, Gaetano Partipilo, Giancarlo Tossani. E ancora Paolo Bacchetta, Marco Bardoscia, Camilla Battaglia, Stefano Dallaporta, Frank Martino, Stefano Coppari, Francesco Fiorenzani, Marcello Giannini, Ivan Liuzzo, Andrea Grillini, Alessandro Presti, Samuele Strufaldi.
Si sono divisi in gruppi, in affinità, in voglia di mettere assieme le proprie composizioni, di confrontare i propri linguaggi. Di giorno in prove aperte in cui affinare l’interplay e crescere visioni condivise. Di sera in concerti dislocati in vari locali e teatri della città.
Ma va ricordato anche il toccante lavoro di Stefano Tamborrino, che ha coinvolto i pazienti con disabilità del Centro Don Uva, riproponendo con emozionante successo un progetto già sviluppato a Foligno con Young Jazz (nella foto di apertura).
Un post condiviso da Marco Valente (@auand) in data: 9 Apr 2017 alle ore 02:58 PDT
Chi conosce un po’ i “gusti” di Valente non stenta a ritrovare in queste giornata alcune delle sue passioni: c’è molta chitarra, ci sono molte tastiere e molta elettronica. Linguaggi insofferenti ai confini e ormai liberati da certi luoghi comuni che in parte affliggevano la scena italiana in anni passati. Si percepisce non solo un rispetto reciproco, ma anche un affetto – se così lo possiamo chiamare – nei confronti di scelte espressive magari lontane dalle proprie.
Dice il contrabbassista Stefano Dallaporta: «sicuramente un aspetto che ci accomuna è che ognuno di noi non ha una vera stabilità professionale, tutti facciamo tante cose diverse, non c’è più un arroccamento stilistico perché non te lo puoi permettere (anche se forse non saremmo arroccati anche se ce lo potessimo permettere). Sono contento di fare tante cose diverse, percepisco le peculiarità di ciascuno, maggiore ampiezza di vedute da parte di tutti i musicisti che hanno a che fare sia con una tradizione che una contemporaneità e rispetto le scelte di tutti quando le sento sincere. La sincerità la riconosco nei musicisti di cui conosco il percorso e quindi so se quello che suonano e appartiene al loro vissuto o serve a seguire un trend. Quando non li conosco personalmente, uso un po’ di sesto senso».
L’identità “jazz” che tanto assillava i musicisti italiani negli anni Ottanta e Novanta sembra per questi musicisti avere lasciato il posto – e non potrebbe essere altrimenti – al riconoscimento di un’identità liquida, in cui la sintesi dei linguaggi di riferimento (spesso molto eterogenei) spinge il singolo artista a cercare una propria dimensione compositiva, dove la scrittura riprende una sua evidente centralità.
Riflette Filippo Vignato: «è naturale che il lavoro compositivo, anche grazie allo studio nei Conservatori, abbia una particolare attenzione alla scrittura. È una tendenza generale, ma va tenuto conto che molti di noi hanno fatto esperienza all’estero, penso a me, Bortone o Diodati in Francia, nel cui jazz c’è storicamente attenzione alla scrittura. Nel momento in cui c’è un confronto con altre tendenze poi, di riflesso uno cerca di rapportarsi identitariamente attraverso lo scrivere».
Un post condiviso da Enrico Bettinello (@enricobettinello) in data: 4 Apr 2017 alle ore 13:23 PDT
Anche per il trombonista vicentino il mood che questi giornate pugliesi hanno instaurato è significativo: «da ottimista percepisco un senso di comunità che si può toccare e questa è l’unica strada percorribile, nonostante la musica sia anche una cosa individualista, ma c’è un senso di appartenenza diffuso e reciproco che solleva gli animi. Quello che va sottolineato è che questo sentimento prima ancora che generazionale è integenerazionale: la generazione prima della mia, quella di De Rossi e Bittolo Bon, è sempre stati inclusiva e aperta con noi musicisti più giovani e io devo molto a loro che hanno fatto sentire alla pari».
Lo stesso Marco Valente, in un raro momento di pausa dalla frenesia dell’organizzazione dei tanti eventi, si ritaglia una riflessione sul tema: «c’è un sentimento generazionale di sicuro: volendo schematizzare potremmo dividere il jazz degli ultimi decenni in un periodo pre-Instabile e post-Instabile. Fino all’Instabile hanno regnato quella decina di musicisti di spicco e che hanno anche goduto di un sacco di soldi pubblici. Poi, dopo un periodo di passaggio, in cui si è passati dai soldi pubblici al “vediamo chi ci riempie i teatri” e si è arrivati a un periodo come quello attuale in cui molti parametri sono in crisi. Storicamente in queste situazioni di crisi la creatività viene fuori e questo periodo di crisi è coinciso con l’affermarsi di una generazione di musicisti che sono cresciuti ascoltando altre cose, che hanno altri mezzi, hanno avuto molta più musica facilmente a disposizione dei loro fratelli maggiori. Sono musicisti che possono facilmente ascoltare quello che succede all’altro capo del mondo senza per forza andarci di persona».
«La generazione free degli anni Settanta – continua Valente – è cresciuta con gli artisti americani che venivano in Italia, i ragazzi oggi invece sono non solo formati da scuole di alto livello, ma anche si sono fatti influenzare da altre cose, ascoltano senza pregiudizi elettronica, rock, pop. Questa generazione è più serena nel riconoscersi anche perché sono finiti i tempi dei feudi e si sentono un po’ tutti nella stessa barca».
Parlando di elettronica, non si può notare una sua massiccia presenza nei Auand Days, le cui sale prova pullulano di pedali, cavi, trasformatori, computer, campionatori, vecchi sintetizzatori. Alcuni progetti sono specificamente dedicati a queste sonorità, ma anche gruppi fondamentalmente acustici non rinunciano talvolta a aumentare la propria tavolozza con aggeggi di ogni tipo. Ne parlo con Alfonso Santimone, che oltre che pianista è da sempre un artista che utilizza strumentazione elettrica e elettronica.
«C’è una questione di riflessione sul linguaggio che deve essere fatta» dice Santimone. «Mi pare ci sia un timido avvicinamento a quel mondo, in senso decorativo più che strutturale. Il che non è necessariamente un male, perché comunque l’esigenza di espandere la tavolozza è sempre positiva, testimonia una forma di ricerca. Il punto è farla diventare organica al proprio linguaggio. Un musicista come Bill Frisell è riuscito con pochissimo a rendere organico l’uso dei pedali ed è perfettamente riconoscibile, anche se poi in sè il rigore sull’elettronica pone problemi seri: chi lavora in studio ha un controllo del dettaglio maniacale e rifinito, mentre l’improvvisatore si trova di fronte a una situazione più complessa, mi viene in mente Musica Elettronica Viva come esempio mirabile».
Interessante è anche la sua riflessione sull’uso di strumenti acustici e elettronici insieme per uno strumentista: «per quanto riguarda me, cerco di non associare mai il suonare il piano con l’elettronica, perché faccio fatica ad avere il controllo di entrambi i mezzi. Ogni tanto se ne parla, ma la discussione è a volte troppo tecnica, si parla dello strumento e non del come usarlo e io credo che rinunciare allo strumento quando si usa l’elettronica sia un fatto positivo».
Un post condiviso da Marco Valente (@auand) in data: 7 Apr 2017 alle ore 14:47 PDT
Quello che si nota ascoltando le varie combinazioni sonore che emergono dagli angoli della cittadina coinvolti è certamente una forte distanza da quanto molti appassionati più tradizionalisti (e anche una fascia di musicisti meno votati all’avventura) considerano “jazz”. Qui è difficile ascoltare degli standard (e quando succede c’è una ragione estetica precisa e legata al resto), così come è raro sentire swingare un 4/4: scorrendo le partiture degli Auanders, appoggiate su un tavolo da ping pong in una pausa delle prove, si leggono più spesso metri e ritmi intricati, che cambiano più volte all’interno della stessa composizione, ostinati un po’ inquietanti lasciano all’improvviso spazio a sghembe esplosioni collettive.
Come sottolinea il pianista e tastierista Giulio Stermieri: «nell’era dei social si ripropone ogni tot la problematica su cos’è il jazz, ma la domanda è sempre meno interessante. Quello che abbiamo sentito qui a Bisceglie in questi giorni racconta proprio questo: il punto non è più delimitare, ma iniziare a dare il giusto peso e mettere in dialettica alcuni linguaggi che sono tradizioni, perché molti di noi mescolano Tim Berne, John Zorn, jazzcore, impro europea, senza sapere di tradire qualcosa, ciascuno di questi linguaggi ha una sua codifica. E questo, secondo me, al di là delle difficoltà del mercato che non offre situazioni stabili, è uno stimolo a esplorare sempre cose nuove. Si collabora di più, si hanno progetti. Auand Days rende più trasparente un ampio sistema di relazioni e consente al singolo musicista di capire il punto in cui si sente rappresentato e trovare una sua relazione con il pubblico».
Ulteriore segno di questa apertura è stato l’invito rivolto da Valente a alcuni direttori artistici e giornalisti europei, che sono arrivati in Puglia per condividere queste giornate.
Come la giovane e intraprendente coordinatrice del Katowice JazzArt Festival, Martyna Markowska, che ci dice la sua impressione: «senza visionari e veri entusiasti, non possiamo mai sperare di avere qualità nel cosiddetto business della musica. Mi ha molto colpito come la Auand stia supportando artisti così creativi da 15 anni. Non credo che il nome Family per la Auand sia un caso: considerati i tanti parenti sparsi in giro per il mondo, a Tokyo, New York e credo che adesso ci sia anche qualche cugino sperduto nella mia Polonia» dice sorridendo.
«Mi hanno colpito molto artisti come Piero Bittolo Bon, Manlio Maresca, Filippo Vignato, Stefano Tamborrino, solo per citare alcuni degli eroi di questa settimana organizzata dal “padrino” Marco Valente. Credo questo sia un fondamentale punto di partenza per le prossime generazioni di improvvisatori e jazzisti in Italia, niente di più facile e interessante da seguire, sia dai direttori artistici che dagli ascoltatori».
Un post condiviso da Marco Valente (@auand) in data: 8 Apr 2017 alle ore 04:59 PDT
Auanders, Piccolo Coro Elettroacustico, Floors, Twin Feed, The Storytellers sono alcuni dei nomi dei progetti emersi in questi giorni. È stata una settimana importante per il jazz italiano, un’esperienza da ripetere e capitalizzare, perché ne ha bisogno non solo un territorio e non solo i musicisti, ma tutto il sistema.
La foto di apertura è di Leonardo Todisco.